Da dove è venuto il tutto?

Anthony Aguirre

È possibile che il nostro Universo, e una moltitudine di altri, siano tutti scaturiti letteralmente dal nulla?

L’Universo che osserviamo è immenso e complesso al di là di ogni immaginazione. Miliardi o migliaia di miliardi di stelle abitano in innumerevoli galassie di diversa forma e bellezza e queste, a loro volta, danzano all’interno di ammassi, ordinati in sottili filamenti che si snodano per centinaia di milioni di anni luce. Per millenni, la cosmologia, ossia il tentativo di comprendere l’origine e l’evoluzione dell’Universo, è stata un terreno di competenza esclusiva della mitologia e della filosofia ma finalmente, nell’ultimo secolo, ha fatto il suo ingresso di diritto nel dominio della scienza, con i cosmologi che hanno compiuto passi da gigante nel formulare modelli coerenti, solidi e ben verificati, capaci di descrivere e di giustificare ciò che gli astronomi vedono in cielo. Questi modelli sono ormai ben fondati e hanno raccolto indubbi successi, al punto che possiamo porci una domanda fondamentale, che è semplice e ingenua, ma tra le più profonde e significative che possano sfidare la mente umana: da dove è emerso il tutto? Ci vuole una buona dose di sfrontatezza per andare in cerca di una risposta e forse è già spavaldo il porsi la domanda. Ma noi vogliamo provarci. Non solo non ci tiriamo indietro, ma addirittura rilanciamo con una sfida ancora più audace: avendo tempo a sufficienza, la giusta dotazione di strumenti e una buona conoscenza della fisica, come potremmo creare un Universo? Come potremmo costruire miliardi e miliardi di galassie, stelle e pianeti?

Tags:COSMOLOGIA

Il volo tribolato del Falcone

J. Kelly Beatty

Motori in avaria, interruzione di segnali radio e batterie scariche hanno reso il viaggio interplanetario della sonda giapponese Hayabusa un’avventura piena di colpi di scena.

Quando una seria esplosione scosse la capsula dell’Apollo 13, nell’aprile 1970, ponendo improvvisamente in grave rischio la vita dei tre astronauti in viaggio verso la Luna, gli ingegneri di Houston organizzarono un frenetico programma per riportare a casa sani e salvi i tre uomini che si erano spinti a 320 mila km dalla Terra. Molti ricordano quell’episodio di salvataggio come “la più bella impresa della NASA”. Ai giorni nostri è in corso un altro drammatico recupero, questa volta di un robot che sta mille volte più lontano, a oltre 320 milioni di km di distanza: gli ingegneri giapponesi le stanno infatti tentando tutte per salvare la sonda Hayabusa e riportarla a Terra. E anche se la posta in gioco non è così alta – la sonda non porta uomini a bordo ed è costata la modica cifra di 170 milioni di dollari per la costruzione e il lancio – il mondo scientifico e gli appassionati di astronautica di ogni Paese stanno comunque facendo il tifo per i tecnici della JAXA (Japan Aerospace Exploration Agency). Se l’Hayabusa alla fine ritroverà la strada di casa, nel giugno 2010 una piccola capsula scenderà appesa a un paracadute in un deserto australiano, con a bordo quello che potrebbe essere il primo campione di materiale che sia mai stato raccolto dalla superficie di un asteroide. Il team di ingegneri e scienziati responsabile della missione è andato incontro, in un solo viaggio, a tutti i rovesci di fortuna che si potessero immaginare.

Tags:ASTRONAUTICA

E per Sole una pulsar

Francesco De Paolis, Ada Facchini, Achille Cucita

È mai possibile che una stella di neutroni ospiti un sistema planetario? Le osservazioni ce lo garantiscono; i modelli teorici faticano a giustificarlo.

La possibilità che esistano mondi assai diversi dal nostro è da sempre una curiosità che può essere soddisfatta solo affiancando alla “fantasia timorosa”, presente nella letteratura di tutti i tempi, una razionalità e uno studio scientifico che possano generare conferme, si spera rassicuranti. Come potrebbe allora non suscitare un’attenzione non esclusivamente limitata all’interesse scientifico, ma di respiro più ampio, l’esistenza di un sistema planetario con caratteristiche per certi aspetti simili a quello solare ma orbitante attorno a una pulsar? Le pulsar ricoprono un ruolo importante nello studio dei pianeti extrasolari dal 1991, da quando Aleksander Wolszkan scoprì i primi due pianeti orbitanti intorno alla PSR 1257+12. La caratteristica fondamentale delle pulsar è di emettere impulsi radio periodici di altissima stabilità, ciò che le rende paragonabili ai migliori orologi atomici. Lo studio accurato dei tempi di arrivo di tali impulsi ha consentito di accertare la presenza di oggetti di natura planetaria attorno a questi particolari corpi celesti. Quando la stella, in moto intorno al centro di massa comune al suo pianeta, si muove allontanandosi dalla Terra, l’intervallo di tempo tra la ricezione di due impulsi successivi è maggiore rispetto a quando, lungo la sua orbita, essa si avvicina al nostro pianeta. Misurando queste variazioni momentanee del periodo, che a loro volta si ripetono regolarmente, è possibile non solo dedurre la presenza di pianeti, ma anche stimare il semiasse maggiore dell’orbita e porre un limite inferiore alla loro massa. Attualmente, la lista dei pianeti rivelati intorno a pulsar annovera solo due casi: quello della PSR 1257+12, una pulsar da millisecondo con quattro pianeti, e quello della PSR 1620–26, che forma un sistema binario con una nana bianca, e intorno a cui orbita un pianeta.

Tags:ASTROFISICA

L’eredità di John Flamsteed

Nick Kanas

Gli atlanti celesti moderni hanno tutti beneficiato del lavoro pionieristico del primo Astronomo Reale inglese.

L’età dell’oro delle mappe celesti composte in delicate forme pittoriche fiorì in Europa dal XVII al XIX secolo. Gli atlanti stellari di quel periodo erano abbelliti da rappresentazioni artistiche di figure mitologiche, divinità, animali fantastici, mostri marini, e anche dei primi strumenti scientifici che erano l’orgoglio del tempo. Tali capolavori grafici erano però anche mappe molto funzionali, che cercavano di fissare con la massima precisione la posizione delle stelle in cielo e la loro luminosità. Uno dei più importanti di questi atlanti stellari fu frutto del lavoro appassionato di John Flamsteed (1646-1719), il primo Astronomo Reale inglese, che spese gran parte della sua vita professionale nella catalogazione accurata delle magnitudini e delle posizioni di un numero di stelle molto maggiore di quelle catalogate da qualunque altro suo predecessore. Il suo monumentale Atlas Coelestis venne pubblicato postumo, nel 1729, dalla moglie che era stata anche sua assistente. L’opera ebbe da subito una profonda influenza sull’evoluzione della cartografia celeste e ispirò la ricerca in questo campo per più di un secolo.

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Intes Micro MN 65

Piergiovanni Salimbeni

Un catadiottrico luminoso che, per definizione e contrasto, non fa rimpiangere i più costosi rifrattori e che ben si presta alla fotografia.
Molti astrofili conoscono il rinomato catadiottrico Maksutov-Newton Intes- Micro MN 66: chi lo usa, sostiene di non rimpiangere i rifrattori. È stato, quindi, un vero piacere provare la nuova versione di tale strumento, siglata MN 65, la quale presenta caratteristiche nuove, che la rendono anche un valido telescopio per la ripresa fotografica. La prima innovazione è la maggiore dimensione dell’obiettivo, che è di 165 mm; alla lunghezza focale di 900 mm, abbiamo un rapporto d’apertura pari a f/5,5, che gli conferisce una buona luminosità, seppure non raggiunga le prestazioni del nuovo astrografo della stessa azienda, l’MN 74, aperto addirittura a f/4. Il menisco è composto da vetro Kt, mentre lo specchio primario è in Pyrex. L’alluminatura e la quarzatura si sono dimostrate molto valide, esibendo anche visualmente un’ottima purezza e un’alta capacità di riflessione. In mezzo al menisco, troviamo il piccolo specchio secondario che determina un’ostruzione minima, pari al 26%, lontana anni luce da quella dei comunissimi Schmidt e Maksutov-Cassegrain, ma di poco superiore a quella del precedente MN 66. Di fronte all’uscita porta-oculari, fa bella mostra di sé un sistema di diaframmatura interna che, insieme con la perfetta opacizzazione, denota quale sia stata la cura dei progettisti nella soppressione delle luci parassite. Molto solido il focheggiatore da due pollici, che fa uso di un sistema di cilindri in grado di consentire un back-focus superiore ai 60 mm e che ci ha concesso di utilizzare tutti gli oculari in nostro possesso, una comoda torretta binoculare e un paio di reflex digitali d’ultima generazione. Tags:STRUMENTI

Le nebulose di Cassiopea

Luigi Fontana


Completiamo questo mese il nostro tour in questa vasta e ricca costellazione. Come accennato nel fascicolo di dicembre, lo spazio limitato ci costringe comunque a saltare alcuni oggetti degni di nota, che tratteremo in futuro, quando Cassiopea sarà nuovamente ben osservabile. Ancora una volta (non ci stancheremo mai di ripeterlo!) ciascuno completi le osservazioni qui suggerite con un testo specialistico e un buon atlante. In queste descrizioni, dato il grande numero di ammassi aperti che Cassiopea include, sacrificheremo qualche ammasso a favore di nebulose, certo più difficili da osservare, ma di maggiore soddisfazione, nebulose che sono tutte soggetti fotografici ragionevolmente facili e ricchi di dettagli. Tags:

Una cometa da manuale

Luciano Lai


Se si dovesse scegliere una cometa per descrivere i vari aspetti fisici e morfologici di questi corpi celesti, un’ottima candidata sarebbe la C/2006 M4 (SWAN) che ha solcato i nostri cieli nell’autunno scorso e che tuttora è un buon oggetto per il telescopio. Per molti mesi è stata considerata una normalissima cometa, che non prometteva nulla di eccezionale, dopo il passaggio al perielio del 28 settembre. Le effemeridi del Minor Planet Center e del Jet Propulsion Laboratory indicavano per essa una magnitudine intorno alla ottava, che non è una magnitudine da sottovalutare in tempi di magra, ma che certamente non infiamma gli animi degli astrofili. Come già riportato in precedenza, il 24 ottobre la cometa è però andata soggetta a un outburst di caratteristiche eccezionali, con un aumento di luminosità di circa quattro magnitudini: tra il 25 e il 28, infatti, era visibile a occhio nudo. In Internet le notizie viaggiano veloci e ben presto una folta schiera di astrofili era in fermento; in particolare, molti italiani hanno seguito sera per sera l’evolversi del fenomeno. Particolarmente bravo (e fortunato per le molte sere che il clima romano gli ha regalato) è stato Danilo Pivato, Tags:

Il cielo a latticello

Edwin C. Krupp

La mitologia indù sull’origine del Sole e della Luna è illustrata nelle sculture a rilievo del tempio di Angkor Wat (Cambogia).

Secondo il Mahabharata, un poema epico sanscrito di duemila anni fa, e secondo altri sacri testi indù, in un’epoca primordiale gli dei buoni e i demoni estrassero dalle acque dell’oceano il Sole e la Luna, allo stesso modo in cui il burro viene estratto dal suo latticello. Dei e demoni, perennemente rivali, erano impegnati nella dura lotta per la conquista della supremazia e della sovranità dei cieli, ma in quell’occasione - narra il mito - essi unirono i loro sforzi per ricavare l’elisir dell’immortalità dalle acque lattiginose dell’oceano. Prima che dei e demoni trasformassero l’acqua oceanica in latticello, i demoni - più vecchi e forti degli dei - stavano prevalendo. Associati con l’oscurità, nella tradizione indù i demoni abitavano il regno degli inferi. Gli dei, per contro, erano alleati della luce. Le due entità erano le facce opposte della stessa medaglia, in una situazione di permanente dialettica e complementarità dalla quale venivano attivate le forze che resero il mondo così com’è. Stremati e sfiduciati dalla battaglia coi demoni, gli dei consultarono Visnu, una delle tre divinità supreme della religione induista, sorgente dell’ordine cosmico, il quale prescrisse loro una dose di amrita, la magica bevanda dell’immortalità, per ricostituire il vigore perduto.

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