Le Stelle nr. 65 Agosto 2008
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Alla ricerca della materia oscura34
Alla ricerca della materia oscura
Richard Panek
Gli astrofisici sanno dov’è, ma non cosa sia. Per capirlo, stanno cercando di coglierla sul fatto
Lo scorso 4 febbario sette ricercatori della California University raggiunsero nella sua abitazione a Berkeley il fisico Bernard Sadoulet. In qualità di membri del gruppo CDMS (Cryogenic Dark Matter Search) essi erano in attesa di conoscere i risultati di un’analisi “cieca” dei loro dati, un test per verificare che il lavoro che stavano conducendo fosse utilizzabile per produrre risultati coerenti e quantificabili. Secondo i loro calcoli, nel corso dell’ultimo anno, il rilevatore di particelle CDMS II, sotterrato nei meandri di una miniera di ferro dismessa, avrebbe dovuto registrare non più di una o due interazioni. Questo avrebbe indicato che il rivelatore, schermato da tonnellate di solida roccia, sarebbe stato “a prova di proiettile” per le particelle subatomiche vaganti costi- tuite da materia cosiddetta “ordinaria”. Più basso il numero di interazioni, più piccoli i confini del mondo “esotico” che potrebbe ospitare la materia oscura. A mezzanotte in punto il gruppo si riunì attorno a un computer nel soggiorno di Sadoulet, i dati furono “sbloccati” e si attese che i risultati apparissero. Zero. Seguì un applauso, non molto diverso da quello che spontaneamente ricevette un altro componente del gruppo, Rupak Mahapatra (University of California, Santa Barbara), a un convegno sulla materia oscura qualche settimana dopo a Marina Del Rey, vicino a Los Angeles, presentando gli stessi risultati ai colleghi provenienti da ogni parte del mondo. Il fatto che un risultato nullo sia motivo di festeggiamento è solo un indizio di quanto complesso sia il problemi legato allo studio della materia oscura. Tags:COSMOLOGIA -
Segnali dall’Universo oscuro40
Segnali dall’Universo oscuro
Rita Bernabei
Forse la ricerca della materia oscura che tanto affanna gli astrofisica di tutto il mondo ha già avuto esito positivo grazie agli esperimenti DAMA/NaI e DAMA/LIBRA condotti al Laboratorio Nazionale del Gran Sasso.
La sensazione di meraviglia che proviamo di fronte al cielo notturno stellato, che ci appare così affollato, rende difficile immaginare che quel che stiamo vedendo costituisce in realtà solo una piccola parte dell’Universo. Fin dall’inizio del secolo scorso, infatti, gli astronomi notarono che per spiegare i movimenti dei corpi celesti non era sufficiente la sola materia visibile. Il primo ad accorgersene, negli anni ’30, fu l’astronomo svizzero Fritz Zwicky; infatti, studiando il movimento delle galassie dell’ammasso della costellazione della Chioma di Berenice, egli notò come esse si muovessero molto più rapidamente di quanto atteso (v. anche pag. 34 di questo stesso numero). La loro velocità poteva essere spiegata solo considerando le galassie immerse in un campo gravitazionale molto più intenso di quello generato dagli oggetti visibili dell’ammasso. Alcuni anni dopo quanto già osservato da Zwicky fu confermato da osservazioni sull’ammasso di galassie della costellazione della Vergine. Un passo decisivo fu fatto poi negli anni ’70 quando diverse osservazioni mostrarono che lo stesso effetto era presente anche all’inerno delle galassie. Infatti, nelle galassie a spirale come la nostra Via Lattea, la maggior parte della materia visibile è concentrata nel nucleo centrale e, quindi, per le leggi della gravitazione, la velocità con cui gli oggetti astrofisici ruotano attorno ad esso dovrebbe diminuire rapidamente all’aumentare della loro distanza dal centro della galassia. Le osservazioni hanno mostrato che tali corpi celesti si muovono invece molto più rapidamente di quanto atteso, come se fosse presente anche una componente di materia non visibile che contribuisce ad aumentare l’attrazione gravitazionale. Tale materia è stata generalmente indicata col nome di materia oscura. Tags:COSMOLOGIA -
Alla scoperta dell’Universo violento44
Alla scoperta dell’Universo violento
Robert Naeye
A giugno è partito GLAST, il nuovo pioniere della NASA per studiare i raggi gamma
La croce e delizia della vita degli scienziati che si occupano dello spazio è, non appena costruiscono e lanciano una missione, iniziare a pensare alla successiva. Nel 1991 la NASA aveva appena messo in orbita il secondo dei suoi grandi Osservatori, il Compton Gamma Ray Observatory (CGRO). Non appena i primi risultati iniziarono ad arrivare dalla sonda, uno dei responsabili del progetto, Peter Michelson (della Stanford University), iniziò a immaginarne la sua ideale prosecuzione. Michelson si unì a un team del quale faceva parte, tra gli altri,William Atwood dello Stanford Linear Accelerator Center (SLAC) e nel 1993 pubblicarono un concept paper, cioè un articolo nel quale vengono spiegati i principi sui quali si può basare un nuovo esperimento e le linee guida per la sua realizzazione pratica. Essi battezzarono la missione GLAST, acronimo di Gamma Large Area Silicon Telescope. Secondo i loro pro getti l’utilizzo di fogli di silicio nei rivelatori avrebbe prodotto un marcato miglioramento rispetto a quelli fino a quel momento realizzati. 15 anni dopo, esattamente l’11 giugno di quest’anno, una sonda spaziale simile alla proposta iniziale di GLAST e con lo stesso nome – ma con un diverso acronimo, Gamma-ray Large Area Space Telescope – è stata lanciata da Cape Canaveral, in Florida, a bordo di un razzo Delta 2. È un viaggio lungo e strano quello che parte dall’idea nel cervello di uno scienziato e arriva a una sonda completa e funzionante. GLAST ha dovuto infatti superare la usuali verifiche e varie difficoltà tecniche e finanziarie, ma il team per la progettazione al Goddard Space Flight Center della NASA è riuscito ad aggirare gli ostacoli e coordinare le attività dei 18 partners negli Stati Uniti, Europa e Giappone. Il risultato vale tutte le tribolazioni e le dure prove passate, perché questo satellite da 4 tonnellate e mezzo promette di rivoluzionare la visione umana del cielo nei raggi gamma, dove si possono osservare i fenomeni estremi e più energetici che scuotono l’Universo. Tags:ASTROFISICA -
La dimensione delle stelle50
La dimensione delle stelle
Stefano Covino
Spesso quando si parla di stelle si prende in considerazione la loro massa e poco si dice, o si sa, sul loro diametro. Come si misura la dimensione delle stelle? Storia e successi di una serie di tecniche che stanno raggiungendo risultati sempre migliori
Fra 4 o 5 miliardi di anni il nostro Sole, in seguito al progressivo esaurirsi del combustibile nucleare, sperimenterà una fase evolutiva di intense trasformazioni che lo porteranno a diventare una gigante rossa. È molto probabile che i pianeti interni, la Terra e forse anche Marte, verranno inglobati negli strati più esterni del Sole che avrà aumentato le sue dimensioni fino a oltre l’orbita terrestre, qualche centinaio di volte il diametro attuale pari a circa 1.4 milioni di km. Molti lettori sono probabilmente a conoscenza di questa previsione della teoria dell’evoluzione stellare. È tuttavia possibile che non ci si sia mai fermati a riflettere su un parametro fondamentale di tutti i modelli di evoluzione stellare: la dimensione delle stelle. Sappiamo che per le stelle il parametro più importante è la massa; molti sanno anche che la composizione chimica può giocare un ruolo importante; molti di meno, probabilmente, si sono soffermati a pensare come sia possibile conoscere le dimensioni dei corpi celesti. Per il nostro Sole è tutto sommato agevole immaginare come si possa conoscere quanto è grande: conoscendo la distanza, con semplici metodi trigonometrici è possibile ricavarne le dimensioni. Ma per le stelle più lontane? Capire come si misurano le dimensioni degli astri lontani permette in effetti di scoprire alcune delle tecniche di misura più sofisticate e ingegnose messe a punto dagli astronomi nel corso dei secoli. Tecniche osservative che ci permettono, in molti casi, di ottenere informazioni sulle dimensioni fisiche di stelle la cui distanza è tale da rendere il lo- ro disco del tutto impercettibile anche con i più grandi telescopi moderni. Si tratta di un affascinante viaggio, che ora cercheremo di capire accompagnati dall’ingegno umano. Tags:ASTROFISICA -
Bis di eclissi nel mese di agosto55
Bis di eclissi nel mese di agosto
Tiziano Magni
In agosto ben due appuntamenti aspettano i “cacciatori d’eclissi”. Se per vedere l’eclissi totale di Sole dell’1 agosto bisognerà viaggiare molto lontano (Siberia, Mongolia o Cina), la Luna regala ai cieli italiani un’eclissi comoda la sera del 16, sebbene parziale
Se appartenete a quella ristrettissima schiera di appassionati disposti a sobbarcarsi a viaggi di migliaia di km pur di assistere per alcuni istanti allo spettacolo celeste della notte in pieno giorno, generata dall’interposizione della Luna tra la Terra e il Sole, nel 2008 avrete a disposizione una sola opportunità: l’eclisse totale di Sole dell’1 agosto. Non si tratta, però, di un’opportunità particolarmente favorevole: una buona frazione degli oltre 10.000 km della lunghezza complessiva di quella ristretta fascia della superficie terrestre dove l’eclisse risulta totale appartiene infatti alle regioni artiche, dove scarseggiano gli avamposti permanentemente abitati ed è invece elevata la probabilità che il cielo venga nascosto da una spessa coltre di nubi. Il cono d’ombra del nostro satellite naturale tocca, infatti, la superficie terrestre alle 9h 21m di Tempo Universale (UT) – le 11h 21m secondo l’Ora Estiva in vigore nel nostro Paese – nei territori settentrionali del Canada, appena a nord del circolo polare artico. Si dirige poi verso nord-est interessando, tra le 9h 27m e le 9h 36m UT, la parte più settentrionale della Groenlandia prima di percorrere l’Oceano Artico dove, alle 9h 38m UT, raggiunge la massima latitudine settentrionale: il limite nord della fascia di totalità è posto a 84° 47’; la massima durata della totalità, che inizialmente è di 1m e 30s, qui raggiunge i 2m e 9s ed è in costante aumento, mentre l’altezza del Sole eclissato rispetto all’orizzonte è di 23°. Tags:OSSERVAZIONI