Astronews a cura di Massimiliano Razzano
Fino al 13/11/2017 a cura di Piero Bianucci, fino al 20/01/2018 a cura di Luigi Bignami
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25/10/2019 - LE NEWS DI COSMO SU BFCSPACE.COM !
LE NEWS DI COSMO SU BFCSPACE.COM !
La nuova rivista COSMO si completa con il sito Bfcspace.com dove si possono trovare news, anticipazioni e molto altro.
Astronomianews (raggiungibile anche dal menu di Bfcspace) rimane il punto di riferimento per gli archivi di Nuovo Orione e le Stelle, per caricare le foto e per il servizio di posta dei lettori.
Le rubriche 'Le Vostre Stelle' e 'Domande & Risposte' di COSMO vengono alimentate ancora con foto e lettere prelevate da Astronomianews.
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24/10/2019 - BATTEZZA UN ESOPIANETA!
BATTEZZA UN ESOPIANETA!
Parte la votazione pubblica per scegliere tra le prime tre classificate - su oltre 600 pervenute - la proposta migliore per il nome da assegnare all’esopianeta HD102195b e alla stella attorno alla quale orbita.
La commissione NameExoWorlds Italia, dopo un lungo lavoro di validazione, passa alla seconda fase del concorso.
Votare è semplicissimo: basta collegarsi al sito altrimondi.inaf.it/iau100/ne-restera-solo-uno/, dove troverete il link alla google form .
Potete votare una sola volta: inserite il vostro indirizzo mail e segnate la vostra preferenza tra le tre proposte descritte. Avete tempo fino al 10 novembre.
Alla chiusura delle votazioni comunicheremo la proposta vincitrice, che verrà inviata all’Unione Astronomica Internazionale per l’approvazione definitiva.
Piero Stroppa
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24/10/2019 - Stronzio di nuova formazione rilevato nello spazio
Stronzio di nuova formazione rilevato nello spazio
Era il 17 agosto 2017 e per 100 secondi la Terra subì la microscopica deformazione di un’onda gravitazionale, prontamente rilevata dai rilevatori Virgo e LIGO. Quell’onda gravitazionale, la quinta mai registrata, è oggi nota come GW170817 e per gli esperti era l’impronta inequivocabile della fusione tra due stelle di neutroni, cui seguì la potente esplosione di una kilonova, annunciata da un potente lampo gamma, meno di due secondi dopo. Fu possibile delimitare l’area di provenienza di quel segnale con molta precisione, tanto che tutti gli strumenti disponibili vi furono puntati al più presto, scovando, quasi 11 ore dopo, un transiente nella galassia NGC 4993, distante 130 milioni anni-luce: era nata l’astronomia multi messaggero.
Tra i vari strumenti puntati sulla kilonova, figuravano anche quelli dell’ESO in Cile. In particolare, lo spettrografo X-shooter sul Very Large Telescope (VLT) ne analizzava la luce rilevando la sicura firma di vari elementi pesanti tra cui, per la prima volta, quello dello stronzio. E gli astronomi attendevano da qualche tempo un tale evento perché permetteva di verificare in diretta le teorie riguardanti la formazione degli elementi più pesanti poiché non tutti potevano formarsi nel nucleo delle stelle di grande massa o nel corso delle esplosioni di supernova. Il rilevamento conferma che gli elementi più pesanti nell'Universo si formano proprio con le kilonove, fornendo perciò la tessera mancante nel quadro. La firma di tali elementi pesanti andava cercata tra le righe spettrali e questo è ciò che hanno fatto un team di ricercatori europei, monitorando il transiente in una vasta gamma di lunghezze d’onda.
X-shooter in particolare ha preso una serie di spettri dall'ultravioletto al vicino infrarosso. L'analisi iniziale di tali spettri suggeriva la presenza di elementi pesanti, ma in prima battuta gli astronomi non furono in grado di discriminare i vari elementi se non dopo una revisione dei dati acquisiti nel 2017.
Durante l’esplosione della kilonova si crearono infatti quelle condizioni estreme necessarie per la creazione degli elementi pesanti attraverso il processo di cattura rapida dei neutroni, mediante il quale un nucleo atomico cattura neutroni abbastanza velocemente da consentire la formazione di elementi molto pesanti, grazie alle alte temperature e al gran numero di elettroni liberi presenti in quell’ambiente ambiente.
Credito immagine: ESO/L. Calçada/M. Kornmesser
Giuseppe Donatiello
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08/10/2019 - I NOBEL ASTRONOMICI DEL 2019
I NOBEL ASTRONOMICI DEL 2019
Il Premio Nobel per la Fisica 2019 è stato assegnato a tre studiosi dell’Universo, che hanno contribuito a ridimensionare il posto dell’uomo nel cosmo (Figura).
Al cosmologo canadese James Peebles (84 anni) è stato assegnato il premio per “le scoperte teoriche nella cosmologia fisica”. Si tratta di studi iniziati negli Anni 60 del secolo scorso e che hanno permesso l’evoluzione della cosmologia da scienza speculativa a scienza sperimentale. Le sue intuizioni hanno contribuito alla elaborazione del modello attuale, che descrive l’Universo nato circa 14 miliardi di anni fa con il Big Bang e che comprende, oltre alla materia e alla radiazione ordinaria, anche la materia oscura e la energia oscura.
Gli altri due vincitori, gli svizzeri Michel Mayor (77 anni) e Didier Queloz (53 anni), sono i planetologi che nel 1995 annunciarono la prima scoperta di un pianeta al di fuori del Sistema Solare: l’esopianeta 51 Pegasi b, una palla gassosa paragonabile al nostro Giove.
La loro “scoperta di un esopianeta intorno a una stella simile al Sole” ha dato il via a una rivoluzione ancora in corso: da allora sono stati trovati oltre 4000 esopianeti, e questo numero è in continua ascesa. Vengono scoperti in continuazione nuovi mondi con un’incredibile varietà di dimensioni, forme e orbite. Mondi che sfidano le nostre convinzioni e che stanno costringendo gli scienziati a rivedere le teorie sui processi fisici che danno stanno origine ai pianeti.
E chissà se, grazie ai numerosi progetti in corso per la ricerca di nuovi esopianeti, potremo finalmente trovare una risposta alla storica domanda se ci siano altre forme di vita nell’Universo.
“Un risultato grandioso, che testimonia l’importanza dell’astrofisica moderna e il suo valore strategico per il futuro dell’umanità”, ha commentato il presidente dell’INAF Nichi D’Amico. “Si tratta di temi in cui i ricercatori italiani sono in prima linea. Lo studio degli esopianeti e la ricerca di tracce di vita in altri mondi vede tra i protagonisti i nostri scienziati che lavorano con telescopi come il Telescopio Nazionale Galileo, il Large Binocular Telescope e, in futuro, l’Extremely Large Telescope. L’Italia è coinvolta in importanti missioni spaziali progettate per lo studio degli esopianeti, come Ariel, Cheops e Plato. E con la prossima missione Euclid potremo dare risposte su quel 95% dell’Universo che ancora non conosciamo” (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
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07/10/2019 - Dai un nome ai nuovi satelliti di Saturno!
Dai un nome ai nuovi satelliti di Saturno!
Con ben 20 nuove lune, in un colpo solo Saturno si è ripreso lo scettro di pianeta con il maggior numero di satelliti, togliendolo a Giove, che si era portato in testa con le 12 nuove lune annunciate lo scorso anno. La situazione è adesso di 82 a 79.
I nuovi satelliti saturniani sono tutti di piccole dimensioni: a scoprirli è stato anche stavolta l’astronomo del Carnegie Institute of Science Scott Sheppard con il suo team. L’aspetto più sorprendente è che ben 17 di queste nuove lune si muovono su orbite retrograde rispetto alla rotazione del pianeta, solo una è regolare e due descrivono orbite prograde.
'Usando alcuni dei più grandi telescopi al mondo, stiamo completando l'inventario delle piccole lune attorno ai pianeti giganti', ha detto Sheppard. 'Hanno un ruolo cruciale nell'aiutarci a determinare come si sono formati ed evoluti i pianeti del nostro Sistema Solare'.
Le nuove lune di Saturno si muovono tutte a grandi distanze dal pianeta e orbitano in circa 3 anni le retrograde e in 2 anni l’unica regolare. In base ai parametri orbitali, risulta che i nuovi satelliti appartengano a tre distinte famiglie ed è probabile che i membri di ogni gruppo siano frammenti di un progenitore più grande. Il loro studio può fornire informazioni sulle origini, nonché sulle condizioni presenti nella regione di Saturno al momento della formazione e successiva evoluzione.
Di fronte a tanta abbondanza, sorge il problema di battezzare i nuovi aggiunti: il Carnegie Institute ha lanciato l’idea di far proporre al pubblico i nomi, seguendo alcune semplici regole.
1. Twittare il nome della luna suggerito su @SaturnLunacye dire perché sia stato scelto mediante l'hashtag #NameSaturnsMoons.
2. Le due lune prograde esterne si inseriscono nel Gruppo Inuit con inclinazione di circa 46°: tutti i loro nomi devono essere quelli di giganti della mitologia Inuit.
3. Le 17 lune con orbita retrograda rientrano nel Gruppo Norreno: tutti i loro nomi dovranno essere attinti da tale mitologia.
4. Una delle lune scoperte segue un’orbita prograda con inclinazione prossima a 36°, simile a quelle del Gruppo Gallico, sebbene sia molto più lontana da Saturno rispetto a qualsiasi altra del gruppo. Dovrà essere nominata con il nome di un grande della mitologia gallica.
A chi volesse provarci, suggeriamo di leggere le regole adottate dall’Unione Astronomica Internazionale in tema di nomenclatura su www.iau.org/public/themes/naming/
Giuseppe Donatiello
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07/10/2019 - IL PIANETA 9 È UN BUCO NERO?
IL PIANETA 9 È UN BUCO NERO?
Lo sviluppo della scienza si avvale di una certa componente creativa, in cui idee apparentemente audaci, all’atto della verifica sperimentale, si dimostrano esatte. Ma altrettanto 'La scienza è fatta di belle teorie distrutte da fatti orribili', come disse il biologo Thomas Henry Huxley.
In quest’ottica, è doveroso riportare l’ipotesi formulata da due fisici, Jakub Scholtz e James Unwin, che propongono una spiegazione del mancato rilevamento del Pianeta 9, la cui esistenza spiegherebbe le orbite peculiari di alcuni oggetti del Sistema Solare situati al di là dell’orbita di Nettuno (TNO, Transneptunian Objects).
Cinque anni fa, gli astronomi Konstantin Batygin e Mike Brown, impegnati nello studio di alcuni TNO come Sedna, conclusero che le loro orbite erano spiegabili con la presenza di un pianeta simile a Nettuno con un’orbita compresa tra 200 UA (Unità Astronomiche) al perielio e di oltre 600 UA all’afelio, con un periodo orbitale compreso tra 10 mila e 20 mila anni.
La scoperta di altri TNO anomali, detti “Sednoidi”, ha poi rafforzato questa idea. I Sednoidi sono troppo lontani per sentire la perturbazione dei pianeti noti, quindi a confinarli in quelle orbite particolari deve essere un corpo molto più grande della Terra, situato oltre i confini conosciuti del sistema planetario, che è stato denominato “Pianeta 9”.
Lo studio degli esopianeti e i fenomeni delle migrazioni planetarie ha rafforzato l'idea che nel Sistema Solare manchino proprio dei pianeti del genere. Questi “pianeti mancanti” possono essere stati fagocitati dal giovane Sole, oppure spinti a grandi distanze (come è avvenuto ai nuclei cometari della Nube di Oort), o addirittura fiondati verso il mezzo interstellare, per diventare dei pianeti nomadi.
Un’altra ipotesi è che il Pianeta 9 potrebbe essere un esopianeta sottratto a una sorella del Sole, quando la nostra stella neonata era ancora immersa in un ammasso stellare aperto.
Alla sua distanza, il Pianeta 9 avrebbe una luminosità estremamente bassa, al limite delle possibilità di rilevazione con i maggiori strumenti ottici attuali. Perciò, viene cercato mediante una specifica rassegna nella regione di cielo ritenuta più promettente. Ma non è stato ancora rinvenuto nulla e si sta iniziando a mettere in dubbio l’esistenza di questo pianeta.
Gli astronomi Antranik Sefilian e Jihad Touma hanno proposto l’idea di un fitto anello di TNO a circa 100 UA che, con una massa pari a 10 volte la Terra, sarebbe in grado di produrre le perturbazioni osservate. La presenza di questo disco di piccoli corpi ghiacciati sarebbe in grado di spiegare le osservazioni che avevano motivato l'introduzione del Pianeta 9.
C’è una proposta ancora più esotica: quella di Scholtz e Unwin, che propongono di considerare gli effetti gravitazionali di un buco nero primordiale (PBH) di 5-20 masse terrestri.
Un’ipotesi estrema ma verosimile, perché questi oggetti, non derivati da collassi stellari, sono previsti in alcuni modelli del Big Bang e si sarebbero formati in zone particolarmente dense dell’Universo primordiale. Nessuno ha mai osservato un PHB, ma di questi oggetti ce ne dovrebbero essere tanti, anche vicini a noi, estremamente piccoli e pressoché invisibili.
Un buco nero di 5 masse terrestri avrebbe un orizzonte degli eventi con un diametro di circa 4,5 cm: quanto si è visto nella famosa immagine del buco nero di M87, nel nostro caso avrebbe le dimensioni di un pallone da calcio e non di un centinaio di UA: veramente minuscolo! (Figura).
I micro-PBH dovrebbero essere nel frattempo tutti “evaporati” e non più presenti nell’Universo, secondo quanto ipotizzato da Stephen Hawking, ma quelli di massa simile alla Terra dovrebbero ancora esistere, ed è proprio questo che rende tale ipotesi suggestiva.
Un buco nero di 5 masse terrestri potrebbe essere rilevabile attraverso per via delle emissioni X e gamma prodotte nel suo disco di accrescimento, perciò andrebbe cercata una debolissima sorgente di queste radiazioni che si sposti lentamente nello spazio. Vengono per questo analizzati anche dati d’archivio, come quelli del Fermi Gamma-ray Space Telescope della NASA. Scholtz e Unwin sperano di trovare gruppi di lampi gamma sporadici che tradiscano la presenza di un oggetto collassato che si muova lentamente, compreso l’effetto di micro-lensing gravitazionale sulle sorgenti di sfondo.
Tutto sarebbe diverso se si scoprisse il Pianeta 9 in immagini profonde. Il problema è che questo pianeta, oltre a essere estremamente debole, si muoverebbe anche lentamente, perciò il confronto deve essere eseguito su immagini prese a molti mesi o anni di distanza. Inoltre, i grandi telescopi hanno campi di vista molto stretti, perciò la ricerca diventa veramente ardua.
Un’eccezione è rappresentata dal grande telescopio giapponese Subaru, installato sul Mauna Kea alle Hawaii, la cui camera CCD Hyper Suprime Cam riprende un’area di cielo estesa quanto circa le dimensioni apparenti della Galassia di Andromeda. Molto di più si potrà fare con i telescopi per survey del cielo di nuova generazione, dotati di campi di vista di ampiezza pari a molti gradi quadrati. La caccia è aperta!
Giuseppe Donatiello
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24/09/2019 - La Stella di Boyajian forse non è sola!
La Stella di Boyajian forse non è sola!
Ricordate la stella KIC 8462852, nota anche come Stella di Boyajian? Per chi avesse la memoria corta, è quella strana stella che manifesta inspiegabili variazioni luminose, scoperta nel 2016 tra i dati di Kepler esaminati dai volontari partecipanti al progetto Planet Hunter. La stella fu notata per le sue bizzarre e irregolari variazioni luminose, registrate nell’arco di 1420 giorni, che portarono la stella a variare in luminosità sino al 22%. Ogni tentativo di spiegazione presentava debolezze tali da far escludere quelle più ordinarie, come il comune transito di pianeti o la intrinseca variabilità stellare, tanto che qualcuno – in tutta serietà – propose di considerare pure ipotesi esotiche, come la presenza di una struttura artificiale intorno a questa stella di classe spettrale F. Tuttavia, specifici programmi di ascolto avviati dal SETI non rivelarono alcuna emissione degna di nota. Non abbiamo ancora una spiegazione convincente per il suo strano comportamento, più unico che raro. Forse. Quindi, cosa provoca lo strano comportamento di KIC 8462852? Probabilmente saranno di grande aiuto le future osservazioni, anche grazie al contributo degli astrofili che possono garantire una sorveglianza pressoché costante.
E se tale stella avesse anche degli analoghi? Un gruppo di ricercatori, guidati da Edward Schmidt (Università del Nebraska, Lincoln), si è messo nel frattempo alla ricerca di stelle con comportamenti simili, trovando ben 21 candidate!
Schmidt e colleghi [ApJL 880 L7] hanno trovato i potenziali analoghi applicando un algoritmo di ricerca automatizzata, capace di riconoscere le curve di luce simili a quella della Stella di Boyajian, in un sottoinsieme di dati provenienti dal Northern Sky Variable Survey, un ricchissimo catalogo di curve riguardanti oltre 14 milioni di stelle variabili. Schmidt ha quindi ispezionato le sorgenti più promettenti anche tra i dati dell'All Sky Automated Survey for Supernovae (ASAS-SN), rigettando quelli facilmente riconducibili a meccanismi noti, quali la binarietà o la variabilità intrinseca, trovando alla fine le 21 candidate.
15 di esse manifesta una variabilità lenta con tassi di oscuramento alquanto simili alla KIC 8462852 e potrebbero essere stelle molto simili ad essa. Le altre 6 manifestano invece variazioni più rapide e frequenti, quasi in una versione estrema. Nei dati di Gaia DR2 si rileva che queste stelle dalla variabilità inspiegabile si raggruppano in due precise posizioni nel diagramma H-R (colore- magnitudine), cioè stelle di una o due masse solari, rispettivamente di sequenza principale oppure giganti rosse evolute. Gli autori auspicano un’intensa campagna di studio per queste 21 candidate, certi che da esse si arriverà alla comprensione anche di KIC 8462852.
In figura le curve di luce appartenenti alle nuove candidate “variabili inspiegabili” simili a KIC 8462852
Riferimento:
Edward G. Schmidt et al. 2019, A Search for Analogs of KIC 8462852 (Boyajian's Star): A Proof of Concept and the First Candidates ApJL 880 L7
Giuseppe Donatiello
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17/09/2019 - L’ESTINZIONE DEI DINOSAURI: FU ANCHE UN PROBLEMA DI ZOLFO
L’ESTINZIONE DEI DINOSAURI: FU ANCHE UN PROBLEMA DI ZOLFO
L’ESTINZIONE DEI DINOSAURI: FU ANCHE UN PROBLEMA DI ZOLFO
Un gruppo di ricercatori guidati da Sean Gulick ha presentato uno studio geologico riguardante il cratere di 180 km di diametro attribuito all’asteroide associato all’estinzione dei dinosauri, avvenuta circa 66 milioni di anni fa.
Lo studio ha rivelato la presenza di conglomerati attribuibili a depositi prodotti da tsunami riversati dentro il cratere. Tutto questo materiale sarebbe stato trasportato dal reflusso delle acque che hanno riempito la cavità poche ore dopo la collisione ed è ben rappresentativo dell’enorme catastrofe causata dall’asteroide di circa 10 km che cadde nello Yucatan.
Tuttavia, in quel miscuglio di rocce, carbone e resti pietrificati, non si ritrovano i minerali ricchi di zolfo che invece abbondano nelle aree circostanti il cratere e di cui certamente erano ricche le rocce su cui si schiantò l’asteroide con l’energia di 10 miliardi di bombe atomiche.
Lo zolfo è un elemento che crea un raffreddamento se immesso in atmosfera, e durante l'Evento K/T (Cretaceo/Terziario) ne fu vaporizzata una quantità 10 mila volte maggiore di quella prodotta dall'eruzione del Krakatoa del 1883, che indusse un raffreddamento planetario per alcuni anni di 5,5°C.
Sappiamo che eventi simili per potenza al K/T non produssero effetti di rilievo sulla biosfera, quindi una collisione da sola non può essere invocata come agente scatenante di un'estinzione in massa, perciò deve essere stato proprio lo zolfo a fare la differenza. In sostanza, l'asteroide si abbatté nel posto peggiore che poteva, provocando l'evaporazione di enormi quantità di zolfo che avvolsero l'intera atmosfera alla fine del Mesozoico, raffreddando il clima.
Secondo gli studiosi, a innescare la grande estinzione, più che gli effetti diretti della collisione, fu quindi il clima gelido conseguente a un forte, repentino e prolungato raffreddamento. O più probabilmente entrambi gli agenti. In Figura, una rappresentazione artistica dell’eventodi Donald E. Davis (NASA).
Giuseppe Donatiello
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21/08/2019 - NUOVO RITRATTO DI GIOVE ESEGUITO DA HUBBLE
NUOVO RITRATTO DI GIOVE ESEGUITO DA HUBBLE
Una nuova immagine di Giove, ripresa dal telescopio spaziale Hubble lo scorso 27 giugno, permette di ammirare in dettaglio la Grande Macchia Rossa (GMR), nonché una tavolozza di colori più intensi – rispetto a quanto visto in anni precedenti – tra le nuvole che turbinano nell’atmosfera turbolenta di Giove. Proprio questi colori, assieme ai cambiamenti che mostrano nel tempo, forniscono importanti indizi sui processi in corso nell’atmosfera di Giove (Figura).
Le fasce colorate, che scorrono in direzioni opposte a varie latitudini, sono dovute a differenze di spessore e altezza delle nuvole di ghiaccio di ammoniaca che risultano in diverse pressioni atmosferiche. Le bande più chiare si trovano ad altezze superiori e hanno nuvole più spesse rispetto alle bande più scure.
Proprio la GMR, una tempesta più larga della Terra che ruota in senso antiorario, si trova tra due fasce di nuvole che si muovono in direzioni opposte. La fascia rossa sopra e a nord-est della GMR contiene nuvole che si muovono verso ovest e intorno al nord della tempesta, mentre le nuvole bianche a sud-ovest della GMR si stanno spostando verso est e attorno alla parte meridionale del vortice.
La struttura vermiforme situata sotto la GMR è un ciclone, un vortice attorno a un’area di bassa pressione, con venti che ruotano nella direzione opposta rispetto alla macchia. Le due formazioni ovali bianche sono invece anticicloni, ovvero versioni in piccolo della GMR.
Un altro dettaglio interessante è il colore della banda larga all’equatore, un arancione brillante, probabilmente dovuto al fatto che le nuvole più profonde stanno iniziando a schiarirsi, enfatizzando le particelle rosse nella foschia sovrastante.
Tutte le bande di nuvole colorate di Giove visibili nell’immagine sono confinate a nord e a sud da correnti a getto che rimangono costanti, anche quando le bande cambiano colore. Le bande sono tenute separate da venti che possono raggiungere velocità di 645 km/h.
La nuova immagine è stata ripresa dalla Wide Field Camera 3 di Hubble per il programma OPAL (Outer Planets Atmospheres Legacy), che fornisce visualizzazioni globali annuali dei pianeti esterni del Sistema Solare per cercare cambiamenti nelle loro tempeste, venti e nuvole. Al momento del ritratto, Giove si trovava a oltre 600 milioni di km dalla Terra, vicino alla opposizione al Sole di quest’anno.(Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
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17/08/2019 - L’ORIGINE PRIMORDIALE DEI BUCHI NERI SUPERMASSICCI
L’ORIGINE PRIMORDIALE DEI BUCHI NERI SUPERMASSICCI
Il collasso di una stella non è l’unico meccanismo che porta alla formazione di un buco nero, soprattutto se questo è vecchio tanto quanto l’Universo stesso. Infatti, sono stati osservati buchi neri risalenti fino a solo 690 milioni di anni dopo il Big Bang. Durante quest’epoca, le stelle allora presenti non avevano il tempo sufficiente per collassare in un buco nero. Il meccanismo del collasso diretto spiega la formazione di buchi neri supermassicci nati nelle prime fasi di vita dell’Universo. Un nuovo studio di due ricercatori della Western University in Ontario (Canada) ha chiarito il funzionamento di tale modello, fornendone una descrizione analitica e motivata fisicamente.
Il modello del collasso diretto prevede che i buchi neri supermassicci si siano formati molto velocemente in un brevissimo lasso di tempo e che poi, quasi all’improvviso, la loro crescita abbia subito un’interruzione. La ricerca definisce un nuovo modello matematico per spiegare questa crescita esponenziale e la rapida formazione di questi antichi mostri cosmici.
I buchi neri supermassicci si ritengono essere al centro di ogni galassia, compresa la Via Lattea, ma la loro natura è di difficile comprensione. Nella maggioranza dei casi la loro origine si può spiegare in termini di collasso stellare. Stelle giganti collassano su sé stesse fino al punto in cui si viene a formare una singolarità gravitazionale: nasce un “buco nero”, che catturerà altre stelle con il risultato di aumentare continuamente la sua massa.
Questo meccanismo non può spiegare la formazione dei buchi neri che si trovano al centro dei quasar, formatisi poche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang. Si ritiene che la loro enorme luminosità intrinseca sia originata dall’accrescimento continuo di materiale nel buco nero supermassiccio centrale. Per questi buchi neri la spiegazione del collasso stellare non è più valida e negli anni è stato introdotto il modello del collasso diretto.
La crescita dei buchi neri tramite collasso diretto potrebbe essere iniziata quando erano passati circa 400 milioni di anni dal Big Bang e sarebbe proseguita per altri 150 milioni di anni. Durante questo tempo, la crescita del buco nero avviene in regime di limite di super-Eddington.
Il limite di Eddington definisce il massimo valore di luminosità che un oggetto può raggiungere quando la pressione verso l’esterno, causata dalla radiazione emessa, controbilancia la forza gravitazionale che tende a farlo collassare. È possibile che nei casi più estremi, come per i buchi neri supermassicci, questo limite venga superato. Si parla quindi di regime di super-Eddington e per questi oggetti l’unico destino possibile è il collasso gravitazionale.
Tuttavia, l’accrescimento in regime di super-Eddington si arresta bruscamente quando, nella nube che ospita il buco nero, la radiazione emessa dalla materia in accrescimento ionizza le molecole della nube disperdendo il gas.
I buchi neri supermassicci hanno avuto solo un breve periodo di tempo in cui sono stati in grado di crescere velocemente e poi, a un certo punto, a causa di tutte le radiazioni nell’universo create da altri buchi neri e stelle, la loro produzione si è fermata, spiegano gli autori della ricerca.
Questi risultati potranno essere verificati dalle future osservazioni, in particolare dal promettente James Webb Telescope, per studiare più a fondo la storia e l’origine dei giganteschi buchi neri nati quando l’Universo era ancora in fasce.
In Figura, una rappresentazione artistica del quasar ULAS J1120+0641, formatosi 770 milioni di anni dopo il Big Bang, alimentato da un buco nero supermassiccio da 2 miliardi di masse solari (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa