Astronews a cura di Massimiliano Razzano
Fino al 13/11/2017 a cura di Piero Bianucci, fino al 20/01/2018 a cura di Luigi Bignami
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17/08/2019 - L’INGORDIGIA DI ETA CARINAE
L’INGORDIGIA DI ETA CARINAE
Per oltre un secolo e mezzo, Eta Carinae è stata una delle stelle più luminose e più enigmatiche della Via Lattea australe. In realtà, si tratta di un sistema binario, cioè di due astri legati gravitazionalmente, con una massa complessiva di almeno 100 volte quella del Sole e una luminosità milioni di volte superiore.
Con questi numeri, Eta Carinae non poteva certo avere una vita tranquilla. Parte della sua natura si è rivelata nel 1838, quando si è prodotta in una gigantesca esplosione, che ha espulso la nebulosa di gas a forma di pupazzo di neve che la contraddistingue, chiamata “Nebulosa Omuncolo”.
Il telescopio spaziale Hubble ha ripreso Eta Carinae con le diverse fotocamere di cui è stato progressivamente dotato nel corso della sua quasi trentennale carriera. L’ultima immagine, ripresa con la Wide Field Camera 3, è quella a più alta risoluzione ottenuta da Hubble, e offre una visione speciale dei gas in rapidissima espansione della nebulosa, che sfavillano come fuochi d’artificio rossi, bianchi e blu (Figura). La caratteristica saliente dell’immagine corrisponde al colore blu, scelto convenzionalmente per rappresentare le osservazioni effettuate da Hubble in ultravioletto, invisibile all’occhio umano.
L’emissione UV proviene da nubi di magnesio , che gli scienziati hanno individuato all’interno di cavità della nebulosa che dovevano teoricamente essere vuote. Si tratta di gas fortemente accelerato che sembra essersi liberato dalla stella prima dell’esplosione vera e propria: un ulteriore mistero sui processi fisici in atto nella regione, da risolvere con future osservazioni.
Un’altra caratteristica notevole dell’immagine è rappresentata dalle striature visibili nella regione bluastra al di fuori dalla bolla inferiore sinistra. Queste striature appaiono come raggi di luce che filtrano tra le nuvole, ma il meccanismo che le produce è ben diverso.
Le cause della “grande eruzione” di Eta Carinae rimangono oggetto di speculazione. Una recente teoria suggerisce che Eta Carinae abbia iniziato la sua carriera come sistema triplo, e l’espulsione di massa di 170 anni fa sia stata attivata quando la stella primaria – una supergigante blu – ha violentemente inglobato una delle sue compagne, espellendo nello spazio una quantità di materia equivalente a 10 masse solari.
Mentre cresce l’incertezza sulle circostanze esatte in cui si è prodotto lo spettacolo pirotecnico, aumenta invece la consapevolezza di quale sarà l’ultimo show in cui Eta Carinae si esibirà: una supernova, che potrebbe anche essere già andata in scena, ma che sulla Terra vedremo in differita di almeno 7500 anni, giusto il tempo che la luce impiega per percorrere la distanza che ci separa da questa bellezza cosmica (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
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17/08/2019 - IL CUORE DI FERRO DI MERCURIO
IL CUORE DI FERRO DI MERCURIO
Come quello del nostro pianeta, anche il nucleo esterno di Mercurio è composto da metallo fuso. Ma se si conosce abbastanza quello esterno, altrettanto non si può dire di quello interno, sulla cui composizione, fino a oggi, c’erano solo indizi. Ora però, lo studio di un gruppo internazionale di scienziati, guidato da Antonio Genova della Sapienza di Roma, mostra come Mercurio un cuore solido effettivamente ce l’abbia, e dalle dimensioni quasi uguali a quello terrestre.
Il nucleo metallico – liquido e solido – di Mercurio occupa quasi l’85% del volume del pianeta (Figura): questa percentuale record – enorme rispetto a quella relativa agli altri pianeti rocciosi del Sistema Solare – insieme alla possibile presenza o meno di un nucleo solido, ha rappresentato a lungo uno fra i misteri più intriganti di Mercurio.
Il team ha utilizzato osservazioni compiute dalla sonda Messenger della NASA, in orbita attorno a Mercurio da marzo 2011 ad aprile 2015. Grazie a queste osservazioni, i ricercatoti hanno potuto determinare le anomalie gravitazionali del pianeta e la posizione del suo polo rotazionale.
Mentre Messenger orbitava attorno a Mercurio e si avvicinava sempre di più alla sua superficie, gli scienziati hanno registrato come la navicella accelerava sotto l’influenza della gravità del pianeta, e come le variazioni di densità introducessero piccoli cambiamenti nella sua orbita. Inserendo questi dati in un algoritmo sofisticato, il team è riuscito a ricostruire quale fosse la composizione interna del pianeta in grado di spiegarne meglio la rotazione e l’accelerazione subita dalla sonda.
I risultati suggeriscono che Mercurio debba avere un nucleo interno di ferro solido da circa 2000 km di diametro, dunque circa la metà del diametro del nucleo planetario (circa 4000 km). Sulla Terra, il cuore solido occupa poco più di un terzo dell’intero nucleo.
“Abbiamo dovuto raccogliere informazioni da molti campi – geodesia, geochimica, meccanica orbitale e gravità – per scoprire quale debba essere la struttura interna di Mercurio”, dice Erwan Mazarico, scienziato planetario al Goddard Space Flight Center della NASA e coautore dello studio, sottolineando la multidisciplinarietà dell’approccio seguito.
Mercurio ha una densità molto elevata; una caratteristica dovuta al fatto che il nucleo è molto grande e che parte di esso ha subito un processo di solidificazione più accelerato. Questo spiega ance perché il campo magnetico di Mercurio sia molto debole, frutto di una riduzione della parte fluida più esterna del nucleo che rappresenta la sorgente di questo campo. La Terra, che ha un nucleo fluido più grande, ha un campo magnetico più forte.
Un tempo si pensava che Mercurio fosse simile alla Luna. In realtà, più si conosce più sembra il fratello minore della Terra. E in quanto tale potrebbe darci informazioni sull’evoluzione del nucleo del nostro pianeta e sul suo campo magnetico. Per esempio, conoscere il motivo per il quale il campo magnetico di Mercurio sia diventato così debole e si sia evoluto in questo modo potrebbe fornirci le basi per predire come il campo magnetico terrestre possa evolvere nel futuro.
La sonda BepiColombo dell’ESA potrà trarre vantaggio da questi risultati, potendo stabilire con maggiore accuratezza la dimensione del nucleo solido, cercare di capire se la presenza del nucleo può essere responsabile del debole campo magnetico del pianeta o ancora completare le misure eseguite da Messenger (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
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17/08/2019 - La cometa 67P ha una minuscola luna
La cometa 67P ha una minuscola luna
La sonda Rosetta dell’ESA non era da sola a volteggiare intorno alla cometa 67P/ Churyumov-Gerasimenko. Insieme con essa c’era una minuscola luna di appena 4 m di diametro. Questo mini-satellite è ritenuto un frammento staccatosi dal corpo principale della cometa ed è stato notato dall’astrofilo spagnolo Jacint Roger mentre esaminava le immagini catturate dalla sonda tra agosto 2014 e settembre 2016.
In particolare, tra le riprese ottenute il 21 ottobre 2015 con la sonda distante circa 400 km dal nucleo, ha notato tra i vari frame che stava utilizzando per un’animazione, un punto che si spostava in maniera coerente con un oggetto in orbita e presente in tutti i fotogrammi della sequenza (Figura).
Roger ha pubblicato una GIF animata su Twitter lo scorso maggio e la cosa non è passata inosservata ai membri del team di Rosetta che hanno ulteriormente indagato sull’oggetto, nel frattempo soprannominato Churymoon. Si è potuto ritrovare l’oggetto anche in altre immagini ed è stata confermata la sua presenza in orbita almeno sino al 23 ottobre 2015.
La presenza di detriti nei pressi dei nuclei cometari è tutt’altro che rara, come hanno dimostrato le immagini ottenute dalle sonde avvicinatesi ad altri astri chiomati, ma tali oggetti erano perlopiù transitori e destinati ad allontanarsi, sospinti dal vento solare. Il caso di Churymoon è speciale, perché il detrito è apparso stabilmente in orbita per alcuni giorni.
Presumibilmente, si tratta di un satellite temporaneo ed è improbabile una lunga permanenza in orbita, per via delle perturbazioni che hanno agito su di esso. Sarà comunque interessante indagarne le sorti analizzando altre riprese di Rosetta, ma nel frattempo l’astrofilo spagnolo si gode il suo meritato momento di popolarità, a conferma di quante cose utili possano fare gli appassionati quando vanno a sbirciare negli archivi di dati pubblici, sia essi ottenuti da sonde sia da strumenti al suolo.
Giuseppe Donatiello
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16/08/2019 - Una “Terra Calda” ne fa trovare un’altra più ospitale
Una “Terra Calda” ne fa trovare un’altra più ospitale
GJ 357 è una stella nana rossa di classe spettrale M con un terzo la massa del Sole e si trova ad appena 31 anni luce in direzione della costellazione dell’Idra. Lo scorso febbraio, il Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS) della NASA aveva individuato un esopianeta che le orbitava attorno ogni 3,9 giorni, designato GJ 357b, a una distanza 11 volte inferiore a quella di Mercurio e il 22% più grande della Terra.
Con tali parametri, al nuovo mondo spetta una temperatura di equilibrio – anche tenendo conto degli effetti imputabili alla presenza di un’atmosfera – pari a 254°C: un mondo decisamente scottante che gli studiosi classificano come “Terra Calda”. GJ 357b è comunque interessante perché, pur essendo inospitale, è il terzo esopianeta più vicino alla sua stella tra quelli transitanti conosciuti.
Proprio per questo è stato seguito con osservazioni dal suolo, per meglio caratterizzarlo, mediante gli strumenti dell’Istituto di Astrofisica delle Isole Canarie(IAC) a Tenerife, da un team guidato dal dottorando Rafael Luque. È stato così confermato questo mondo bollente, ma è stato possibile scoprirne anche altri due, con quello più distante dalla stella, GJ 357d, decisamente più intrigante, perché orbita nella zona abitabile, quasi verso il bordo esterno. In quella posizione, GJ 357d orbita in 55,7 giorni a una distanza pari al 20% di quella terrestre e riceve circa la stessa energia che arriva su Marte dal Sole.
Senza atmosfera sarebbe un mondo gelido con una temperatura media di -53°C, però, con una massa pari a 6,1 volte quella terrestre, è plausibile la presenza di una densa coltre gassosa in grado di produrre un benefico effetto serra naturale, quanto basta per rendere le temperature medie più miti e ospitali per eventuale vita aliena se unite alla presenza di acqua liquida in superficie. Con tali parametri fisici, a GJ 357d compete una dimensione circa doppia a quella terrestre.
GJ 357c, il pianeta intermedio a una distanza circa doppia a quello transitante, ha una massa di almeno 3,4 volte quella terrestre, orbita in 9,1 giorni e ha una temperatura di equilibrio intorno a 127°C. Sia il pianeta c che d non producono transiti e non potevano essere trovati analizzando le curve di luce prodotte da TESS, e sono stati identificati mediante l’analisi della velocità radiale con osservazioni dal suolo, anche d’archivio risalenti al 1998 ottenute all’Osservatorio di Las Campanasin Cile, al Keck alle Hawaii, dall'Osservatorio di Calar Altoin Spagna e altri.
In Figura, una rappresentazione artistica del sistema di GJ 357.
Giuseppe Donatiello
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16/08/2019 - Sgr A* ha battuto un colpo
Sgr A* ha battuto un colpo
Il buco nero supermassiccio al centro della nostra Galassia, detto Sagittarius A*, con una massa pari a 4,6 milioni di volte quella del Sole è intensamente studiato e monitorato da alcuni gruppi di astronomi nelle onde radio e nel vicino infrarosso. Uno degli strumenti maggiormente utilizzati per la sorveglianza del suo ambiente è il Keck Telescope. Stavolta a fare notizia non è una delle stelle che gli orbitano più vicino o qualche nube di gas che gli si sia avvicinata pericolosamente, ma proprio Sgr A*, perché è stato colto nel corso di un guizzo di flusso in infrarosso 75 volte maggiore alla norma.
Il flare (brillamento) è durato circa 2,5 ore ed è la prima volta che si osserva qualcosa di così intenso da quando si segue l’attività del buco nero, ovvero da circa vent’anni, nonostante una certa variabilità di brillanza nel tempo fosse già nota. Tale brillamento è stato almeno due volte più intenso del picco più alto mai registrato ed è descritto in un articolo che vede come autore principale Tuan Do, un astronomo dell'UCLA.
Il flare si è prodotto il 13 maggio scorso ed era tanto luminoso che, sulle prime, era stato scambiato per la stella S0-2 (vedi notizia del 27 luglio scorso); poi - grazie alla variabilità manifestata nelle immagini prese in sequenza - si è capito che era proprio il buco nero.
Che cosa ha reso Sgr A* così luminoso nel vicino infrarosso? Sappiamo che questo buco nero è piuttosto quiescente e non produce la tipica fenomenologia che si riscontra nei Nuclei Galattici Attivi, quindi è probabile che qualcosa abbia turbato la relativa tranquillità dell’ambiente. Secondo il team di ricercatori, dovrebbe trattarsi di un fenomeno di cattura di materia.
Gli indizi si sono concentrati sulla stella S0-2 che ha raggiunto il periastro nella primavera del 2018, perciò si è considerata la possibilità che essa abbia rilasciato parte della sua atmosfera nel corso del massimo avvicinamento, a sole 17 ore-luce, per effetto della forte gravità. Tuttavia, gli studiosi non ne sono convinti, poiché S0-2 è la più massiccia delle stelle che si avvicinano a Sgr A*, e la perdita di massa non sembra un’eventualità possibile, così si è pensato anche all’effetto indotto da una nube di gas che circonda il buco nero.
Una di queste, detta G2 e costituita da gas caldo, si pensava sarebbe stata catturata nel 2013 nel momento del massimo avvicinamento al buco nero, producendo una fantasmagorica serie di fenomeni, ma a sorpresa sopravvisse all’incontro e adesso si sta allontanando. È possibile che abbia interagito con altri grumi di polveri e gas indotti a precipitare su Sgr A* ed essere all’origine del brillamento osservato.
Giuseppe Donatiello
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27/07/2019 - IL REDSHIFT RELATIVISTICO AL CENTRO DELLA VIA LATTEA
IL REDSHIFT RELATIVISTICO AL CENTRO DELLA VIA LATTEA
La Teoria della Relatività Generale sostiene che la forza di gravità sia una conseguenza diretta della curvatura dello spazio-tempo prodotta dalle masse. Qualsiasi massa cambia la geometria, e l’entità degli effetti dipende dalla massa, sino alle condizioni estreme nei pressi di un buco nero. Perciò, osservare le zone prossime a un grande buco nero offre le condizioni migliori per studiare tali effetti nel dettaglio.
Da molti anni, due gruppi di ricerca indagano la regione prossima al buco nero Sgr A* da 4 milioni di masse solari al centro della Via Lattea. L’orizzonte degli eventi di questo mostro non è stato ancora avvistato (a differenza di quello annidato nella galassia M87), ma la sua presenza è denunciata dai movimenti peculiari di una ventina di stelle che lo circondano.
L’attenzione dei ricercatori è particolarmente rivolta alla stella denominata S2, tra le più vicine a orbitare intorno al buco nero, con un periodo di 16 anni, che ci rivela una velocità orbitale pari a una frazione non trascurabile della velocità della luce.
Non è permesso alla radiazione visibile squarciare la coltre di nubi di gas e polveri presenti sul piano galattico, perciò tutte le osservazioni di questa minuscola regione del cielo sono eseguite con strumenti operanti nell’infrarosso. Uno di essi è l’Osservatorio Keck in cima al vulcano Mauna Kea alle Hawaii e il suo speciale spettrografo, mediante il quale un team di ricercatori ha osservato e analizzato S2 nel 2018 mentre transitava al periastro (il punto più vicino al buco nero), compiendo misurazioni ogni quattro notti. Altre misurazioni sono state eseguite anche al telescopio infrarosso Gemini e con il telescopio Subaru, sempre alle Hawaii.
Gli spettri raccolti hanno consentito di studiare il moto della stella a un livello mai raggiunto in precedenza, sulle tre dimensioni, potendo così indagare anche gli effetti della Relatività Generale. Einstein aveva previsto che nei pressi del buco nero i fotoni debbano fare uno sforzo extra per via dell’intenso campo gravitazionale. La loro lunghezza d'onda, quando lasciano la stella, dipende non solo dalla velocità con cui la stella si sta muovendo (effetto Doppler), ma anche dall’energia che impiegano per sfuggire al potente campo gravitazionale del buco nero.
Questo effetto combinato produce uno spostamento verso il rosso delle righe spettrali. Non siamo ai livelli estremi dell’ombra del buco nero, ma in condizioni più che sufficienti per mostrare gli effetti relativistici anche su un oggetto relativamente più lontano.
Quello eseguito su S2 è il primo di molti test di Relatività Generale che il team condurrà sulle stelle vicine a Sgr A*. Tra di esse anche la stella S0-102, che è quella con l'orbita più breve tra quelle conosciute, impiegando 11,5 anni per un giro attorno al buco nero, che è distante circa 26 mila anni luce in direzione della costellazione del Sagittario.
In Figura: mentre S2 si avvicina al buco nero supermassiccio al centro della nostra Galassia, la luce emessa dalla stella perde energia per via del potenziale gravitazionale che ne sposta le righe verso il rosso.
Giuseppe Donatiello
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04/07/2019 - L’OCEANO SALATO DI EUROPA
L’OCEANO SALATO DI EUROPA
Una analisi spettrale della struttura di Tara Regio, ben visibile sulla superficie della luna Europa di Giove (vedi Figura, da Google), un team di scienziati planetari del Caltech e del Jet Propulsion Laboratory della NASA ha scoperto che il colore giallo che contraddistingue quella zona è dovuto al comune sale da cucina, il cloruro di sodio. Una scoperta che metterebbe fine a decenni di supposizioni circa la composizione degli oceani sotterranei della luna gioviana, che sono forse più simili a quelli terrestri di quanto si credesse in precedenza.
Sotto la sua crosta ghiacciata, Europa ospita un oceano di acqua salata a contatto con un fondale roccioso, rendendolo un sito particolarmente interessante da esplorare nel Sistema Solare per le condizioni di abitabilità. Al momento attuale, tuttavia, l’opportunità migliore che i ricercatori hanno per comprendere la chimica di tale oceano è studiare la composizione della superficie, geologicamente giovane e attiva. Come, appunto, quella di Tara Regio.
La storia sulla composizione di questa regione inizia con i dati ottenuti grazie ai sorvoli delle sonde Voyager e Galileo della NASA. Dati che hanno portato gli scienziati a concludere che Europa fosse coperta da uno strato di acqua liquida salata, racchiusa in un guscio ghiacciato. Lo spettrometro della sonda Galileo, in particolare, ha trovato ghiaccio d’acqua e una sostanza che sembrava essere solfato di magnesio, nella forma che viene anche chiamata “sale amaro”.
Un risultato, però, in parte in disaccordo con quello ottenuto dall’analisi dei dati spettrali del Keck Observatory, nelle Hawaii, che non mostravano alcun assorbimento caratteristico che riflettesse la presenza di tali sali di magnesio. Cosa era dunque quel composto?
Un aiuto è venuto dai risultati ottenuti da uno studio condotto in laboratorio su campioni di sali oceanici bombardati da radiazioni in una camera che simulava temperatura e pressione presenti sulla superficie di Europa. Si è riscontrato che il cloruro di sodio, dopo l’irradiazione, mostrava caratteristiche nuove: cambiava colore acquisendo una tonalità di giallo simile a quella visibile proprio nella Tara Regio.
Con le osservazioni del Telescopio Spaziale Hubble, i ricercatori hanno trovato il bandolo della matassa, identificando un assorbimento netto a 450 nm, che corrisponde esattamente a quello del sale irradiato dell’esperimento in laboratorio.
Sembra plausibile che questo sale derivi dall’oceano sottostante, come ogni altro sale presente sulla crosta ghiacciata, geologicamente giovane. “Il cloruro di sodio potrebbe indicare che il fondo oceanico è idro-termicamente attivo – dice Samantha Trumbo, del Caltech - Ciò significherebbe che Europa è un corpo planetario geologicamente più interessante di quanto si credesse in precedenza”.
Nell’attesa che missioni come Europa Clipper – progettata per orbitare attorno a Giove e studiare la composizione della superficie della luna e del suo oceano – forniscano nuovi risultati a questo proposito, gli autori del nuovo studio propongono una rivalutazione della geochimica di Europa (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
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04/07/2019 - DUE SIMIL-TERRE ATTORNO A UNA STELLA VICINA
DUE SIMIL-TERRE ATTORNO A UNA STELLA VICINA
Grazie all’accurato lavoro dello spettrografo Carmenes al telescopio spagnolo da 3,6 metri dell’Osservatorio di Calar Alto (Andalusia), il più grande dell’Europa continentale, una collaborazione internazionale principalmente europea ha trovato due pianeti simili alla Terra nella fascia di abitabilità attorno a uno degli astri più vicini a noi, la Stella di Teegarden.
Situata a 12,5 anni luce dal Sistema Solare, la stella deve il suo nome a Bonnard J. Teegarden, astrofisico della NASA che la scoprì nel 2003 mentre cercava asteroidi potenzialmente pericolosi. Il motivo per cui non era conosciuta prima è che si tratta di una stella nana rossa, una delle più piccole conosciute, con una temperatura superficiale di soli 2700 gradi (rispetto ai 5500 del Sole), possiede un decimo della massa solare ed è 1500 volte meno brillante.
Le prime osservazioni per determinare il moto della stella avevano da subito evidenziato delle “oscillazioni” sintomatiche della presenza di pianeti in orbita. Ora, grazie a centinaia di misurazioni dell’effetto Doppler causato da quei piccoli sobbalzi, sono stati identificati due pianeti assimilabili ai pianeti rocciosi del Sistema Solare (Figura).
Il pianeta più interno, Teegarden b, ha una massa simile a quella della Terra e orbita attorno alla stella ogni 4,9 giorni a circa il 2,5% della distanza Terra-Sole. Anche quello più esterno, Teegarden c, è simile alla Terra in termini di massa; orbita in 11,4 giorni e si trova al 4,5% della distanza Terra-Sole.
“Entrambi i pianeti si trovano nella fascia di abitabilità, cioè hanno la giusta distanza dalla propria stella per avere una temperatura che permette la presenza dell’acqua in forma liquida sulla loro superficie – dice Luigi Mancini (Università di Roma Tor Vergata) - Inoltre, il pianeta più interno ha un indice ESI (Earth Similarity Index) pari a 0,95 (ESI = 1 corrisponde alla Terra) ed è quindi al primo posto nella lista dei pianeti potenzialmente abitabili. Infine, la Stella di Teegarden si trova relativamente vicina al Sistema Solare”.
“I telescopi spaziali attuali e di prossima generazione non sono efficienti nell’individuare pianeti di dimensioni terrestri nelle prossimità del Sistema Solare – continua Mancini - Nel 2016, tuttavia, un piccolo telescopio da 60 cm in Cile ha scoperto il sistema planetario più interessante che sia mai stato rivelato, Trappist-1, che ospita ben sette pianeti di dimensioni terrestri, tre dei quali nella zona abitabile. Questa scoperta ha messo in evidenza come sia possibile cercare nuovi mondi tra le stelle vicine. Si stima che circa un migliaio di pianeti di tipo terrestre possano esistere entro 50 anni luce. Tuttavia, queste stelle sono sparse omogeneamente nel cielo, rendendo impossibile studiarle simultaneamente: ogni stella deve essere monitorata individualmente per cercare pianeti attorno ad essa”.
“I due pianeti del sistema planetario Teegarden – conclude Mancini – potrebbero essere caratterizzati con la prossima generazione di grandi telescopi terrestri. Uno degli strumenti proposti per il TMT (Thirty Meter Telescope) è il Planetary Systems Imager che mira a raggiungere un valore di contrasto tale da poter individuare Teegarden c” (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
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02/07/2019 - LIVELLO RECORD DI METANO SU MARTE
LIVELLO RECORD DI METANO SU MARTE
Lo scorso 19 giugno il Tunable Laser Spectrometer (TLS) di Curiosity ha “annusato”, all’interno del cratere Gale, una concentrazione di metano insolitamente elevata. Mai così alta, per il rover NASA, da quando è iniziata la sua missione sul Pianeta Rosso. “Alta” fra virgolette: 21 ppb (parts per billion, “parti per miliardo”) significa che per mettere insieme 21 metri cubi di metano – nella regione dove la misura è stata effettuata – occorre un miliardo di metri cubi d’aria marziana. Sulla Terra, la concentrazione media registrata in atmosfera nel 2019 è cento volte più elevata (1866 ppb).
Quelle marziane sono solo tracce, e localizzate in una particolare regione. Tuttavia, tracce così abbondanti non si erano mai incontrate prima su Marte, perlomeno non da strumenti presenti in situ (alcune osservazioni con telescopi terrestri avevano dato risultati fino a 45 ppb): sono superiori alle concentrazioni rilevate in precedenza sia dallo stesso Curiosity che dalla sonda Mars Express dell’ESA.
Nel frattempo, un’altra sonda in orbita attorno al pianeta, il Trace Gas Orbiter (TGO) dell’ESA – che ha il compito di misurare le concentrazioni di gas traccia nell’atmosfera marziana – continua invece a dare risultati negativi.
Siamo dunque davanti a un enigma, anche supponendo emissioni sporadiche e variazioni rapidissime, visto che la vita media del metano in atmosfera dovrebbe essere pari a circa 300 anni. Se entrambi i riscontri – quelli positivi di Curiosity e Mars Express da una parte, e quello negativo di TGO dall’altra – continueranno a ricevere conferme, la domanda alla quale gli scienziati dovranno dare risposta è anzitutto non tanto cosa sia in grado di produrre, bensì cosa sia in grado di distruggere il metano di Marte.
Ma il mistero più affascinante rimane comunque quello dell’origine di questo gas: è abiotico, dunque rilasciato a seguito di processi geologici? O invece, come accade sulla Terra, a liberarlo nell’atmosfera marziana è qualche sconosciuta forma di vita? Al momento non è possibile escludere nessuna delle due ipotesi.
In Figura, un nuovo piccolo cratere formatosi su Marte nella zona delle Valles Marineris tra il 2016 e il 2019, fotografato dalla camera HIRISE della sonda MRO della NASA. A rendere così spettacolare il cratere sono soprattutto i colori emersi dall'impatto; il meteorite ha spazzato via la caratteristica polvere rossa marziana, facendo esaltare il materiale sottostante: il nero appartiene a rocce basaltiche di origine vulcanica; il blu dovrebbe essere invece ghiaccio (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
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26/06/2019 - ASTEROIDI PERICOLOSI: AVVERTIRE PER TEMPO SI PUO'!
ASTEROIDI PERICOLOSI: AVVERTIRE PER TEMPO SI PUO'!
Astronomi dell’Università delle Hawaii hanno potuto dimostrare, per la prima volta, che con i loro strumenti automatici per survey ATLAS e Pan-STARRS (entrambi finanziati dalla NASA) sia possibile intercettare meteoroidi pericolosi con sufficiente anticipo per allertare la popolazione dalla zona d’impatto.
I due sistemi hanno identificato un piccolo asteroide di circa 4 m, designato 2019MO, prima che entrasse in atmosfera la mattina dello scorso 22 giugno 2019 sopra Puerto Rico. L’oggetto era stato osservato da ATLAS Maunaloa subito dopo la mezzanotte del 22, quando era a circa 500 mila km dalla Terra.
Il sistema automatico di rilevamento e valutazione d’impatto Scout aveva considerato come modesta la possibilità di collisione. Ciononostante, Davide Farnocchia (JPL-NASA) ha notato una possibile correlazione tra l’asteroide e un rilevamento di infrasuoni atmosferici sopra Puerto Rico circa 12 ore dopo, da parte di una stazione alle Bermuda della Comprehensive Nuclear Test Ban Treaty Organization (l'ente che controlla il rispetto del bando degli esperimenti nucleari in atmosfera), chiedendo ai colleghi di segnalare eventuali altre osservazioni di 2019MO.
La stessa notte era operativo anche il telescopio Pan-STARRS 2 (PS2) su Haleakala e aveva inquadrato la regione di cielo in cui si sarebbe dovuto trovare l’asteroide circa due ore prima, permettendo a Robert Weryk e Mark Huber (Institute for Astronomy) e Marco Micheli (ESA) di ritrovare l’oggetto.
Grazie a queste osservazioni aggiuntive, è stata meglio definita la sua traiettoria, permettendo al software Scout di classificare come probabile l’impatto dell’oggetto con il nostro pianeta. Ciò ha permesso di correlare con certezza l’evento registrato sopra Puerto Rico con 2019 MO. Incrociando i dati astronomici con quelli radar del servizio meteorologico portoricano, si è potuto inoltre individuare il punto esatto di entrata, posto sopra l’oceano a 380 km a largo di San Juan.
ATLAS consiste di due strumenti posti a circa 160 km di distanza, rispettivamente sulle isole Mauna Loa e Haleakala, ed è in grado di scansionare l’intera volta celeste locale ogni due notti. Oggetti di alcuni metri, inoffensivi perché destinati a consumarsi completamente durante il percorso atmosferico, possono essere rilevati appena mezzora prima, ma asteroidi più pericolosi – come quello di circa 20 m che esplose sopra Chelyabinsk nel 2013 - anche alcuni giorni prima del possibile impatto, permettendo così di evacuare la popolazione dalle zone interessate.
In Figura, mappa della traiettoria prevista per l'asteroide 2019MO; nell’inserto, immagine dell’impatto ripresa nell’infrarosso dal satellite meteorologico GOES-16 della NOAA. L'energia dell'esplosione è stata valutata tra 3 e 5 kiloton TNT (per confronto, la bomba di Hiroshima aveva una potenza di 15 kiloton). Entrando in atmosfera, la roccia spaziale si è frammentata in almeno tre pezzi, che insieme ad altri minori si trovano ora sul fondo dei Caraibi e sono quindi impossibili da recuperare.
Giuseppe Donatiello