Astronews a cura di Massimiliano Razzano
Fino al 13/11/2017 a cura di Piero Bianucci, fino al 20/01/2018 a cura di Luigi Bignami
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05/04/2019 - Curiosity ha catturato due transiti solari su Marte
Curiosity ha catturato due transiti solari su Marte
Il rover marziano Curiosity della NASA, atterrato nel 2012, imbarca dei filtri solari sulla sua Mastcam con cui è in grado di fissare direttamente il Sole. Nelle ultime settimane, Curiosity ha fatto davvero buon uso di questi filtri, riprendendo le spettacolari immagini dei transiti delle due lune, Phobos e Deimos, di fronte al disco solare. Phobos, con diametro di circa 11,5 Km, è stato ripreso il 26 marzo 2019 (Sol 2.359), mentre Deimos, di circa 2,3 Km, è stato catturato il 17 marzo 2019 (Sol 2.350). Per via delle dimensioni relative, non si può propriamente parlare di eclissi, come pomposamente riportato nella nota stampa del JPL, ma ciò non toglie che, almeno per Phobos, il fenomeno assomigli un po’ a un’eclissi anulare.
Questo genere di transiti sono stati più volte osservati in passato anche da altre sonde, tuttavia non sono soltanto spettacolari ma utili giacché, come per l’osservazione dei transiti sul Sole dei pianeti interni osservati dalla Terra, questi eventi servono ai ricercatori per perfezionare i parametri orbitali delle due minuscole lune. L’osservazione di questi fenomeni ha quindi permesso di conoscere meglio la loro posizione e prevedere con maggiore precisione gli eventi futuri poiché queste due lune risentono notevolmente delle perturbazioni gravitazionali di Marte, di quelle reciproche, del Sole e addirittura del lontanissimo Giove. Ad esempio, quando si tentò di osservare per la prima volta uno di tali transiti, Deimos risultò 40 Km spostato da dove era atteso.
A oggi, sono stati osservati otto transiti di Deimos e una quarantina di Phobos. C'è ancora un margine di incertezza nelle orbite di entrambe le lune di Marte, ma ciò si riduce a ogni eclissi osservata dalla superficie del Pianeta Rosso.
Nell’immagine, il passaggio di Phobos del 26 marzo 2019 (NASA/JPL-Caltech/MSSS)
Giuseppe Donatiello
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02/04/2019 - L’atmosfera di un Super-Giove
L’atmosfera di un Super-Giove
Mediante lo strumento Gravity installato al Very Large Telescope (VLT) dell’ESO in Cile, Sylvestre Lacour (Osservatorio di Parigi e Max Planck Institute for Extraterrestrial Physics, Germania) e colleghi hanno seguito l'orbita del pianeta più interno della stella HR8799, HR8799e scoperto nel 2010, distante 129 anni-luce nella costellazione di Pegaso, misurandone lo spettro con un dettaglio senza precedenti. I risultati sono stati pubblicati su Astronomy & Astrophysics.
Gravity combina la luce raccolta dalle quattro unità da 8,2 metri del VLT, facendole operare all’unisono come un unico grande strumento tramite la tecnica dell’interferometria, mediante la quale si conseguono risoluzioni spaziali elevatissime. È stato così possibile definire l’orbita dell’esopianeta, risultata inclinata di circa 25° rispetto alle orbite degli altri pianeti appartenenti al sistema.
Con Gravity si è potuto inoltre caratterizzare l’atmosfera planetaria, da cui è emersa un’inattesa abbondanza di monossido di carbonio in luogo del metano. Si ritiene che il calore interno provochi imponenti moti convettivi verticali che impediscono al monossido di carbonio di reagire con l’idrogeno per formare metano. HR8799e è infatti un giovane gigante gassoso, appartenente alla classe dei Super-Giove, formatosi da appena 30 milioni di anni. Attraverso i dati si è potuta anche ipotizzare una plausibile meteorologia che contempla la presenza di nubi formate da particelle ferrose e silicati che vorticano in una caldissima atmosfera sferzata da tempeste planetarie e piogge di ferro fuso.
Giuseppe Donatiello
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02/04/2019 - Un’istantanea della grande estinzione alla fine del Cretaceo
Un’istantanea della grande estinzione alla fine del Cretaceo
I paleontologi li chiamano lagerstätten, lemma tedesco con il quale s’indicano i depositi fossiliferi incoerenti formati sia da resti animali sia vegetali che, per qualche ragione, sono stati sepolti nello stesso momento a seguito di un qualche disastro locale, tipo un’improvvisa alluvione o frana. In genere questi depositi non sono molto utili ai fini della datazione stratigrafica, ma sono di enorme interesse perché offrono una visione d’insieme, abbastanza completa, sull’habitat e le specie di una certa epoca. Di lagerstätten se ne conoscono tantissimi e spesso sono le principali fonti di fossili per musei e collezionisti, ma quello recentemente scoperto vicino a Bowman nel Nord Dakota è veramente speciale perché pare risalire a un giorno drammaticamente importante per la storia geologica della Terra, cioè l’Evento K/T.
In un giorno imprecisato di circa 66 milioni di anni fa, un gigantesco asteroide di circa 10Km si schiantò in un posto al largo della Penisola dello Yucatan, nell’attuale Messico. In pochi minuti si scatenò una vera tempesta di fuoco prodotta dalle rocce fuse nel tremendo impatto scagliate anche a migliaia di chilometri. Si scatenarono terremoti e tsunami violentissimi, provocando morte e distruzione in quello che sino a poco prima era un pianeta su cui la vita prosperava. In capo a poche ore, il cielo si oscurò completamente a causa delle polveri sollevate nell’impatto e i fumi prodotti dagli incendi ormai estesi su tutte le terre emerse. Una gran quantità di animali marini e terrestri, tra cui i grandi rettili dominatori del Mesozoico, perirono quasi istantaneamente nei luoghi vicini al cratere, ma l’agonia per quelli più lontani era soltanto rimandata di qualche giorno: era in corso l’ultima grande estinzione in massa.
Vestigia di quell’evento sono state rinvenute in varie parti del mondo, soprattutto il sottile strato argilloso ricco d’iridio che quarant’anni fa servì a postulare la collisione con un asteroide come causa dell’estinzione. Verso al fine degli anni Ottanta fu invece scoperto il cratere di Chicxulub e, in anni seguenti, i segni delle onde di maremoto, soprattutto lungo le coste nordamericane.
Adesso, un gruppo di paleontologi ha portato alla luce un nuovo sistema di depositi fossili consistente di oltre quattro metri di materiale che sembra proprio risalire a quell’evento con la straordinaria caratteristica di mostrare i resti organici di una notevole quantità e varietà di fossili perfettamente conservati e ricoperti da nuovi sedimenti poco dopo, favorendone la fossilizzazione. Tale eccezionale ritrovamento, è riportato in un articolo contenuto in Proceedings of National Academy of Sciences, a firma di un team internazionale composto da 12 scienziati che ha descritto questa speciale capsula del tempo riferita a un ambiente lacustre e ai suoi abitanti. Pur trovandosi a migliaia di chilometri dal punto dell’impatto, gli effetti della collisione furono violentissimi a conferma dell’enorme energia sprigionata che in poche ore fu capace di scagliare i resti di molte creature marine anche nell’entroterra già devastato dai violenti terremoti che erano stati innescati nell’impatto. Altrettanto, le frane colpirono i laghi interni, seppellendoli, e questo sembra lo scenario riportato alla luce poiché le specie rinvenute sono attribuibili a un ecosistema lacustre di acqua dolce. La repentina sepoltura ha creato le condizioni per una squisita conservazione che ha preservato anche i più fini dettagli degli animali e delle piante, ma anche minuscole sferule vetrose, del tutto simili alle tectiti, formate da roccia fusa, letteralmente piovuta dal cielo, che aggiunse altra distruzione. Proprio la datazione del giacimento e la simultanea presenza delle sfere vetrose ha indotto gli studiosi ad attribuire la formazione del lagerstätten proprio al giorno dell’immane disastro.
Nell’articolo, con primo firmatario Robert A. DePalma, curatore di paleontologia presso il Museo di Storia Naturale di Palm Beach, in Florida, gli autori asseriscono che il deposito fossile cattura le conseguenze immediate dell'impatto di Chicxulub, offrendo la migliore istantanea di quel giorno. Il sito è stato scoperto nel 2012 in una proprietà privata, dove si è scavato con grande riservatezza per anni. Man mano che l’importanza del sito emergeva con maggiore evidenza, lo studioso ha poi coinvolto altri specialisti, alcuni dei quali figurano nella lista, tra cui non passa inosservata la presenza di Walter Alvarez, il padre dell’ipotesi dell’asteroide killer per spiegare l’estinzione dei dinosauri dopo il ritrovamento dello strato ricco d’iridio vicino a Gubbio.
“Soltanto un cieco non avrebbe visto i resti ben conservati emergere dall’affioramento fossilifero!”, ha detto DePalma, descrivendo quel groviglio di rami, pesci e altri animali. Ancora più impressionante è apprendere che le sferule vetrose di tectiti arrivarono a ostruire le branchie dei pesci e, in un certo senso, offrendoci per la prima volta una visione più nitida di quanto copiosa e distruttiva deve essere stata quella pioggia rovente che andò a mischiarsi a un repentino flusso di sedimenti trasportato probabilmente da un’onda di marea arrivata al lago attraverso un mare interno, risalendo il Golfo del Messico. Ma gli autori propongono una spiegazione altrettanto plausibile chiamando in causa il fenomeno della liquefazione del terreno, dovuta all’onda d’urto trasportata da scosse sismiche stimabili di magnitudo 10-11. Tale fenomeno, documentato in occasione di grandi terremoti, avrebbe prodotto ingenti flussi di fango riversatisi nel lago da canali naturali già presenti nella regione. La grana finissima del fango ha favorito una repentina cementificazione che ha inglobato grandi storioni e pesci pagaia, molluschi di varie specie, ma anche foglie, fronde di rami e tronchi di alberi bruciati. Il 50% dei pesci fossilizzati sono stati trovati con tectiti nelle branchie, come se i pesci avessero inalato tale materiale, a conferma che la pioggia era in corso da qualche tempo prima del repentino seppellimento. Sono state anche trovate sferule vetrose conservate nell’ambra e rimaste inalterate per ben 66 milioni di anni, fornendo materiale incontaminato strettamente legato alla chimica dell’evento Chicxulub. Come se non bastasse, lo strato immediatamente superiore al deposito fossile è ricco di Iridio, un metallo raro nella crosta terrestre ma abbondante nei meteoriti. Tutto questo è veramente straordinario e rende il sito del Nord dakota, il primo al mondo ad associare distintamente l’impatto cosmico con l’estinzione di massa che spazzo via almeno il 75% delle specie viventi nel Mesozoico.
Giuseppe Donatiello
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21/03/2019 - UNA LENTE GRAVITAZIONALE A FORMA DI “CROCE LATINA”
UNA LENTE GRAVITAZIONALE A FORMA DI “CROCE LATINA”
Un gruppo di ricercatori guidati dall’Istituto Nazionale di Astrofisica ha scoperto una lente gravitazionale a forma di “croce latina” di una galassia lontana, la cui immagine ci appare clonata quattro volte (Figura).
I risultati si devono soprattutto ad Alessandro Omizzolo (Specola Vaticana e associato INAF) che durante una ricerca nelle immagini del telescopio spaziale Hubble si è imbattuto in un oggetto dalla forma peculiare in un ammasso di galassie situato a 3,2 miliardi di anni luce di distanza, nell’Acquario.
Le lenti gravitazionali rappresentano uno degli strumenti più potenti per studiare la distribuzione di materia oscura nell’universo e per derivare alcuni parametri cosmologici, come la costante di Hubble.
La luce di una galassia distante viene deviata dall’influenza gravitazionale di una galassia più vicina, che agisce come una lente e fa apparire la galassia alle sue spalle più grande e più luminosa. Si tratta di un modo raro ma potente – previsto dalla Relatività Generale - di osservare oggetti molto lontani, quindi impossibili da vedere con la strumentazione classica.
La luce viene deviata formando delle immagini doppie (o multiple) della sorgente lontana. Una configurazione molto particolare si ottiene quando la sorgente lontana e la lente sono strettamente allineate. In questo caso si può formare un anello (Einstein ring) oppure quattro immagini della stessa sorgente a forma di croce (Einstein cross).
Le misure spettrali su immagini prese anche al Gran Telescopio Canarias hanno confermato che si trattava di una vera lente gravitazionale di un oggetto a redshift z = 3,03, causato da una galassia (la lente) a z = 0.556. Il redshift dell’oggetto più lontano significa che la luce ha impiegato 11,7 miliardi di anni per arrivare fino a noi e che è stata emessa quando l’Universo aveva solo 2 miliardi di anni.
Da un modello creato dagli esperti, si vede che non c’è solo l’effetto della galassia che crea le 4 immagini. amplificando l’intensità della galassia lontana, ma anche quello dell’ammasso di galassie più vicino, che stira la croce in questa configurazione con un braccio più allungato a forma di croce latina (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
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21/03/2019 - UNA TEMPESTA SOLARE RECORD DI 2610 ANNI FA
UNA TEMPESTA SOLARE RECORD DI 2610 ANNI FA
Il nostro pianeta è costantemente bombardato dai raggi cosmici, particelle energetiche provenienti dallo spazio. Ma questo flusso di particelle risulta particolarmente forte quando imperversa una “tempesta solare”.
Quando sono dirette verso la Terra, tali particelle vengono incanalate dal campo magnetico terrestre verso le aree polari, dove generano il fenomeno spettacolare delle aurore polari ma, in alcuni casi, possono rappresentare un rischio per i sistemi satellitari di comunicazione, per il volo aereo alle latitudini più alte e per le reti elettriche, come avvenne nel 1989 in Quebec (Canada) e nel 2003 a Malmö, (Svezia).
Nei ghiacci polari sono conservate prove indirette di grandi tempeste solari avvenute in passato. Come quelle del 774/775 d.C. e del 993/994 d.C., che presentano livelli di intensità di gran lunga superiori a qualsiasi evento estremo di space weather registrato in epoca contemporanea, come ha dimostrato una ricerca guidata da ricercatori dell’Università di Lund (Svezia), tra cui Raimund Muscheler.
Lo stesso Muscheler ha condotto una nuova ricerca che ha permesso di scoprire, in una serie di “carote” di ghiaccio estratte in Groenlandia (Figura), le tracce isotopiche di un’altra tempesta solare estremamente potente, avvenuta attorno all’anno 660 a.C.
“Se quella tempesta solare avvenisse oggi, potrebbe avere gravi conseguenze per la nostra società ad alta tecnologia”, commenta Muscheler, sottolineando che, anche se tempeste solari di quella portata sono rare, la nuova scoperta dimostra che rappresentano comunque un effetto ricorrente dell’attività solare. Un motivo, secondo il ricercatore, per incrementare i sistemi di protezione della nostra società contro le tempeste solari (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
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21/03/2019 - NGC 6052: UN ABBRACCIO COSMICO
NGC 6052: UN ABBRACCIO COSMICO
A prima vista, quella ripresa in Figura sembra una galassia irregolare. Questa foto effettuata nel visibile e nell’ultravioletto dalla Wide Field Camera 3 del telescopio spaziale Hubble riprende in realtà la coppia di galassie in collisione NGC 6052. Due galassie interagenti situate in Ercole, a circa 230 milioni di anni luce da noi. Un abbraccio dovuto alla reciproca attrazione gravitazionale tra le due galassie iniziato molto tempo fa e che le ha indotte ad avvicinarsi, producendo lo stato caotico che si osserva oggi.
Le brillanti stelle, presenti originariamente nelle singole galassie, hanno abbandonano le loro orbite per intraprenderne di nuove, indotte dai modificati effetti gravitazionali, iniziando così una specie di danza dove le stelle sono tirate l’un l’altra dalla gravità.
Catalogata inizialmente come irregolare (fu scoperta da W. Herschel nel 1784), la NGC 6052 si è rivelata uno scontro fra titani, come tanti altri che si conoscono in cielo. Questa collisione porterà a una fusione delle due galassie, dalla quale si formerà una nuova e unica galassia stabile.
Una sorte che pare pure ci riguardi da vicino. In un futuro molto remoto (non prima di due miliardi di anni) la Via Lattea è destinata a scontrarsi con il nostro vicino galattico: la Grande Nube di Magellano. Poi sarà il turno della grande Galassia di Andromeda, con il quale si realizzerà un vero scontro titanico (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
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21/03/2019 - LA VIA LATTEA PESA 1540 MILIARDI DI SOLI
LA VIA LATTEA PESA 1540 MILIARDI DI SOLI
Combinando i nuovi dati della missione astrometrica Gaia dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) con le osservazioni fatte con il telescopio spaziale Hubble, gli astronomi hanno determinato un nuovo valore per la massa della nostra Galassia, che corrisponde a 1540 miliardi di masse solari, entro un raggio di 129 mila anni luce dal centro galattico.
Esisteva finora una enorme incertezza in queste valutazioni, causata dai diversi metodi usati per misurare la distribuzione della materia oscura, che costituisce circa il 90% della massa della Galassia; sembra incredibile, ma l’enorme spolverio di centinaia di miliardi di stelle di cui è costituita la Via Lattea è solo una piccola percentuale della sua massa, che nel suo complesso rimane oscura e sconosciuta.
“Non siamo in grado di rilevare direttamente la materia oscura”, spiega Laura Watkins (European Southern Observatory), a guida del gruppo di ricerca che ha effettuato l’analisi. “Per questo motivo la misura della massa della Via Lattea è così incerta: non possiamo misurare con precisione ciò che non riusciamo a vedere”».
I ricercatori hanno usato un metodo ingegnoso per pesare la Via Lattea, basato sulla misura delle velocità di 44 ammassi globulari (rappresentati come i punti luminosi che circondano la Galassia in Figura). Questi ammassi si formarono prima del disco a spirale della Via Lattea, dove in seguito è nato anche il nostro Sole. A causa delle loro grandi distanze, gli ammassi globulari permettono agli astronomi di tracciare la massa del vasto inviluppo di materia oscura che circonda la Galassia, ben oltre il disco a spirale.
“Più è grande una galassia, più velocemente si muovono i suoi ammassi, spinti dalla forza di gravità”, spiega Wyn Evans (Università di Cambridge). “Molte delle misure precedenti hanno rilevato la velocità con cui un ammasso si avvicina o si allontana dalla Terra, ossia la velocità dell’ammasso lungo la linea di vista. Ora siamo stati in grado di misurare anche il moto laterale degli ammassi, da cui è possibile calcolare la velocità totale e, di conseguenza, la massa galattica”.
Finora, l’incertezza sulla massa della Via Lattea ha rappresentato un ostacolo per rispondere a molte domande cosmologiche. Il contenuto di materia oscura di una galassia e la sua distribuzione sono intrinsecamente legati alla formazione e alla crescita delle strutture nell’Universo. Determinare con precisione la massa della Via Lattea ci permette di raggiungere una comprensione più chiara di dove la nostra Galassia si trovi in un contesto cosmologico (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
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05/03/2019 - DGSAT I, una galassia ultradiffusa anemica
DGSAT I, una galassia ultradiffusa anemica
Un gruppo di astronomi degli University of California Observatories (UCO) si è dedicato allo studio dettagliato della galassia peculiare DGSAT I, rientrante nella categoria delle ultradiffuse (UDG). Questa classe di oggetti, insieme alle galassie nane di bassa luminosità, è uno dei temi caldi dell’astrofisica, perché ritenuti gli ambienti ideali in cui sondare e indagare le proprietà dell’elusiva materia oscura. Le galassie ultradiffuse, nello specifico, sono oggetti grandi quanto una galassia normale ma con un contenuto stellare sino a 1000 volte minore e sembrano dominate esclusivamente dalla materia oscura che funge da collante gravitazionale, così come nelle galassie ordinarie.
Alcune UDG sono invece estremamente povere di materia oscura ed hanno quindi un aspetto diafano, quasi spettrale, non manifestano segni evidenti di formazione stellare e la scarsità di materia oscura le sta facendo, in un certo senso, evaporare. Essendo intrinsecamente molto deboli, non sono numerose le UDG conosciute e sono perciò tra le galassie più ricercate. La capostipite di tale speciale categoria è considerata la Dragonfly 44, scoperta nel 2015, ma di recente sono balzati agli onori della cronaca pure gli oggetti designati NGC 1052 DF2 e DF4, per via dello scarso o nullo contenuto di materia oscura e di stelle. Tuttavia tali sistemi sono stati trovati all’interno degli ammassi di galassie, Virgo in primis, e questi ambienti affollati possono averne condizionato l’evoluzione. Più rari sono i sistemi relativamente isolati, considerati perciò più interessanti perché, a differenza delle UDG negli ammassi, si pensa non abbiano avuto interazioni con l’ambiente esterno e abbiano perciò seguito un’evoluzione autonoma senza contaminazioni, rappresentando una sorta di capsula del tempo in merito alle condizioni chimico-fisiche presenti nel giovane Universo.
DGSAT I , la prima scoperta, nel 2016, in un ambizioso progetto che coinvolge diversi astrofili, vale a dire il Dwarf Galaxy Survey with Amateur Telescopes (David Martínez-Delgado et Alt.), oltre ad essere ultradiffusa è anche piuttosto isolata, tanto da essere il soggetto ideale per un’analisi accurata con lo strumento Keck Cosmic Web Imager (KCWI), dotato di grandissima sensibilità e capacità di catturare spettri ad alta risoluzione di oggetti debolissimi e lontani, installato sul Telescopio Keck sito alle Hawaii. In una singola osservazione, KCWI acquisisce sia l'immagine sia lo spettro di ciascun pixel nell'immagine, rivelando le proprietà fisiche dell'oggetto, come composizione, temperatura, velocità e altro.
Per il suo isolamento, DGSAT I poteva aver preservato informazioni interessanti sul suo passato che si potevano conoscere mappandone la composizione chimica nel tentativo di comprendere la natura della scarsa componente stellare. La composizione chimica di una galassia fornisce, infatti, una buona indicazione circa l’ambiente di formazione. “Sembrava che ci fosse uno schema relativamente ordinato in merito all’origine delle galassie, dalle spirali alle ellittiche, dalle giganti alle nane', dichiara Ignacio Martín-Navarro, primo autore dell’articolo su MNRAS. 'Tuttavia, le recenti scoperte di UDG hanno sollevato nuove domande su quanto sia completo questo schema. Tutte le UDG studiate nei dettagli finora erano all'interno di ammassi di galassie: regioni dense e d’interazione violenta, in cui le caratteristiche delle galassie alla nascita sono state modificate”. Lo studio ha evidenziato per DGSAT I caratteri chimici che la differenziano sostanzialmente dalle sue simili e che sembrano contraddire la teoria corrente sulla formazione delle ultradiffuse. DGSAT I è apparsa nel complesso estremamente povera di ferro se confrontata alle normali galassie odierne in cui questo elemento abbonda insieme al magnesio, entrambi creati da antiche stelle e diffusi da esplosioni stellari. Per tale motivo questa galassia sembra essere costituita da stelle vecchie o comunque formatesi in un ambiente non arricchito di metalli con antiche supernove. Ma in DGSAT I è soltanto il ferro a mancare poiché il contenuto di magnesio è nella norma, simile a quello delle galassie normali. Questo è strano perché entrambi questi elementi sono rilasciati in eventi di supernova e, di norma, non se ne trova uno senza l'altro. Questo dato ha sorpreso gli studiosi tanto da soprannominare DGSAT I come “la galassia anemica”.
Non è ancora ben chiaro il motivo di tale peculiarità. “Sono state presentate varie idee, dal banale all'esotico”, ha affermato Aaron Romanowsky, co-autore dell'Università Statale di San José. “Una delle nostre idee è che le esplosioni estreme di supernove hanno indotto la galassia a pulsare in dimensioni durante la sua adolescenza, in modo da farle trattenere il magnesio anziché il ferro. Un'intrigante possibilità è che alcune di queste galassie fantasma siano fossili viventi dall'alba dell'universo, quando stelle e galassie sono emerse in un ambiente molto diverso rispetto a oggi. La loro nascita è davvero un mistero affascinante che il nostro team sta cercando di risolvere”.
Il gruppo prevede di utilizzare ancora KCWI per osservare una nuova UDG simile alla DGSAT I.
In Figura: a sinistra, DGSAT I messa a confronto con una normale galassia spirale, entrambe osservate con lo strumento KCWI al Keck. Credito: Aaron Romanowsky /UCO/ David Martínez-Delgado/ARI
Giuseppe Donatiello
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24/02/2019 - HAYABUSA-2 SI PORTA VIA UN PEZZO D'ASTEROIDE
HAYABUSA-2 SI PORTA VIA UN PEZZO D'ASTEROIDE
Dopo quattro anni di viaggio interplanetario e una lunga attesa, la missione è riuscita. A 320 milioni di km dalla Terra, la sonda spaziale giapponese Hayabusa-2 ha prelevato un campione dell’asteroide Ryugu, che sarà poi riportato sulla Terra per analizzarlo e permetterci di scoprire nuovi segreti sul Sistema Solare e la sua origine.
L'avvicinamento massimo è avvenuto nella notte tra il 20 e il 21 febbraio scorso. L’Agenzia spaziale giapponese (JAXA) ha annunciato il successo dell’operazione. Ma solo quando parte della sonda sarà tornata sulla Terra, si potrà essere sicuri che sia riuscita a recuperare materiale roccioso a sufficienza per le analisi. Hayabusa-2 orbita intorno a Ryugu dal 27 giugno 2018. Nei primi mesi, la sonda ha scattato fotografie ed effettuato numerose rilevazioni, consentendo ai ricercatori giapponesi di identificare il punto più adatto per effettuare il prelievo di materiale.
Ryugu ha una particolare forma simile a un diamante e ha un’ampiezza massima di 900 m. La sonda non è atterrata sull'asteroide, ma – in rispetto al suo nome, che significa “Falco pellegrino” - lo ha solo sfiorato (vedi una rappresentazione artistica in Figura), dopo aver lanciato un proiettile di 5 g di tantalio, che ha colpito la superficie dell’asteroide, facendo distaccare piccoli detriti e polvere. Se tutto è andato come previsto, parte di questo materiale è stato raccolto dalla sonda e riposto in un contenitore, dove sarà conservato fino al ritorno della sonda sulla Terra.
L’obiettivo è di riportare tra i 10 e i 100 mg di materiale, ma JAXA non ha la possibilità di sapere se il prelievo abbia funzionato completamente. Il fatto che tutto sia andato secondo i piani fa ben sperare che Hayabusa-2 possa riportarci un pezzetto di Ryugu. Ma sono in programma altri due tentativi di prelievo, per i quali la sonda ha in serbo altri proiettili da sparare.
La missione precedente di Hayabusa-1 aveva tentato un'impresa simile, ma in quel caso il proiettile non aveva funzionato. La sonda aveva comunque riportato qualche traccia di polvere sulla Terra.
Hayabusa-2 resterà nei paraggi dell’asteroide fino alla fine del 2019, poi inizierà il lungo viaggio per tornare sulla Terra, dove è attesa con trepidazione.
Antonio Lo Campo
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22/02/2019 - IL GETTO RELATIVISTICO DELLA SORGENTE GW170817
IL GETTO RELATIVISTICO DELLA SORGENTE GW170817
Ci sono voluti 33 radiotelescopi distribuiti in cinque continenti e 36 astronomi di 11 nazioni per misurare le dimensioni di GW170817, la prima sorgente di onde gravitazionali rivelate dagli interferometri LIGO e Virgo, osservata anche nella controparte ottica da decine di telescopi, a più di un anno dalla sua scoperta.
Lo studio, condotto dal team coordinato da Giancarlo Ghirlanda, primo ricercatore dell’INAF, mostra come dallo scontro di due stelle di neutroni abbia avuto origine un getto di energia e materia lanciato nello spazio interstellare a una velocità prossima a quella della luce. Le due stelle, nell’atto di fondersi, hanno rilasciato materiale ricco di neutroni, che ha formato metalli pesanti, e il getto ha dovuto farsi strada attraverso questo materiale. Se non fosse riuscito a emergere, avrebbe depositato al suo interno la propria energia, provocando una grande esplosione.
In Figura, una rappresentazione artistica della fusione delle due stelle e del getto prodotto dallo scontro. In alto a sinistra, una foto dell’evento ripresa dal telescopio Blanco da 4 m, nella galassia NGC 4993 nell’Idra.
“I rivelatori di onde gravitazionali Virgo e LIGO stanno rientrando in funzione, per sorvegliare un volume di Universo più grande. Ci aspettiamo quindi molti nuovi segnali” - ricorda Marica Branchesi, ricercatrice INAF, fra gli autori del lavoro. Studiare il cambiamento della luminosità della sorgente nel tempo non sarebbe bastato per capire se il getto ce l’avesse fatta a bucare la coltre di materiale circostante. Per scoprirlo, i ricercatori hanno deciso di misurare quanto fosse grande la sorgente: “Dopo diversi mesi, un’esplosione sferica, a una distanza come quella di GW170817, sarebbe apparsa come una bolla luminosa delle dimensioni apparenti di circa un milionesimo di grado – come una moneta da un euro vista da 1000 km di distanza – mentre un getto sarebbe apparso ancora più piccolo”, spiega Ghirlanda.
Dimensioni del genere sono misurabili solamente con la Very Long Baseline Interferometry (VLBI), che combina le osservazioni dei più grandi radio telescopi sulla Terra: maggiore è la distanza fra le antenne utilizzate e più piccoli sono i dettagli delle sorgenti celesti che è possibile distinguere. Tra il 12 e il 13 marzo 2018, sfruttando la rotazione della Terra, i 33 radiotelescopi hanno iniziato a osservare la galassia in cui è avvenuta la fusione delle due stelle di neutroni, partendo dagli strumenti operativi in Australia per terminare con quelli puntati dalle Hawaii. A questa osservazione hanno preso parte anche le antenne italiane dell’INAF situate a Medicina (BO) e Noto (SR), entrambe del diametro di 32 m. I dati sono stati raccolti e analizzati nel centro JIVE (Olanda).
Dopo oltre un anno di incertezze, lo studio fornisce la prova che la sorgente di onde gravitazionali scoperta nell’agosto del 2017 ha lanciato un getto relativistico che ha bucato il materiale espulso nell’atto della fusione delle due stelle di neutroni. Un’informazione che aggiunge un ulteriore tassello alla nostra comprensione di tali fenomeni: grazie a osservazioni di questo tipo, nei prossimi anni potremo avere un’idea più completa e precisa delle varie fasi della vita di buchi neri e stelle di neutroni, a partire dalla loro formazione.
Antonio Lo Campo