Astronews a cura di Massimiliano Razzano
Fino al 13/11/2017 a cura di Piero Bianucci, fino al 20/01/2018 a cura di Luigi Bignami
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26/02/2018 - La forma dell'acqua sulla Luna
La forma dell'acqua sulla Luna
Sulla Luna l’acqua potrebbe essere distribuita su tutta la superficie e non solamente nelle regioni polari. E’ quanto emerge da una nuova analisi dei dati delle missioni Lunar Reconnaissance Orbiter (LRO) della NASA e Chandrayaan-1 dell’Agenzia spaziale indiana. Secondo un team di ricercatori coordinato da Joshua Bandfield dell’Università del Colorado a Boulder, l’acqua potrebbe essersi distribuita nel sottosuolo lunare ed esser stata intrappolata in alcune regioni del nostro satellite naturale. Lo studio, pubblicato su “Nature Geoscience”, è in contraddizione con alcuni studi precedenti secondo i quali l’acqua della Luna sarebbe concentrata nelle regioni polari.
“Abbiamo scoperto che indipendentemente dal momento del giorno o dalla latitudine a cui guardiamo, i segnali che indicano l’acqua sono sempre presenti”, suggerisce Bandfield, “La presenza dell’acqua non sembra dipendere dalla composizione della superficie”. Il dibattito è alimentato dal modo in cui si cercano i segnali della presenza di acqua, principalmente basato sull’analisi della luce emessa dalla superficie lunare, in cui l’acqua avrebbe una “firma” distinta intorno alle lunghezze d’onda infrarosse di 3 micron. Non è tuttavia detto che si tratti solo di un segnale dovuto all’acqua, perché anche la superficie stessa della Luna può essere abbastanza calda da emettere radiazione infrarossa. Bandfield e colleghi hanno proposto un nuovo metodo per isolare i segnale legato all’acqua e l'hanno applicato allo strumento Diviner di LRO e del Moon Mineralogy Maper di Chandrayaan-1. Secondo i dati, la presenza diffusa dell’acqua sarebbe legata alla molecola dell’ossidrile OH, più reattiva dell’acqua.
Anche se i risultati fossero confermati, non significa che l’acqua lunare sia semplice da estrarre. Ma se così fosse, potremmo utilizzarla per i primi avamposti stabili sulla Luna e per future basi spaziali lunari
MR
Nell’immagine: La Luna, il nostro satellite naturale (NASA GSFC)
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23/02/2018 - Nuova misura della costante di Hubble, confermata la misteriosa “tensione” cosmologica
Nuova misura della costante di Hubble, confermata la misteriosa “tensione” cosmologica
Sempre più lontano, sempre più veloce. E’ questa l’idea che emerge dalle osservazioni delle galassie più lontane, che si allontanano da noi seguendo l’espansione dell’Universo. Un’espansione che, lo sappiamo bene da alcuni anni, procede in modo accelerato. Una scoperta che ha meritato il premio Nobel nel 1998 e che ormai è accettata presso la comunità scientifica. Ma per studiare a fondo come si espande l’Universo è importante misurare la costante di Hubble in modo sempre più preciso, come fatto di recente da un team di astronomi dello Space Telescope Institute e della John Hopkins University, entrambi a Baltimora. Sotto la guida di Adam Riess, uno degli scopritori dell’espansione accelerata del cosmo, gli astronomi hanno ottenuto una misura della costante di Hubble con una precisione da record, inferiore al 2%. La misura, pubblicata su “The Astrophysical Journal” conferma la presenza dell’espansione accelerata dell’Universo, la cui causa è ancora ignota.
Secondo i modelli attuali, questa espansione sarebbe causata da una misteriosa energia oscura di cui non sappiamo ancora nulla ma che costituisce più del 73% del budget di massa ed energia del cosmo. Ciò che resta è principalmente dovuto alla materia oscura, mentre quella ordinaria costituisce circa il 5% del totale. Utilizzando le variabili cefeidi come “candele standard”, Riess e colleghi non solo hanno calcolato la costante di Hubble con una precisione migliore, ma hanno confermato la discrepanza con le misure ottenute per altre vie, ad esempio dall’osservazione della radiazione cosmica di fondo. Le misure di questo tipo, ad esempio condotte da Planck, mostrano una costante di Hubble che vale circa 67 chilometri al secondo per megaparsec, mentre i dati raccolti dal telescopio spaziale “Hubble” puntano verso un valore maggiore, pari a 73.
Questa discrepanza o “tensione” fra le misure è uno degli indizi principali per capire davvero i limiti delle nostre conoscenze. Indagandola meglio gli scienziati pensano di riuscire a comprendere più a fondo i meccanismi che governano l’evoluzione dell’Universo.
Nell’immagine: due delle galassie utilizzate per compiere la nuova misura della costante di Hubble (Credits: NASA, ESA, A. Riess (STScI/JHU)
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22/02/2018 - Supernova da record: è la più distante di sempre
Supernova da record: è la più distante di sempre
La sua luce ci ha impiegato quasi 11 miliardi di anni ad arrivare fino a noi. Un tempo da record che ci fa intuire l’enorme distanza che ci separa da DES16C2nm, una supernova super luminosa scoperta nell'agosto del 2016 da un team internazionale di astronomi. Questa spaventosa esplosione è stata infatti trovata nell’ambito della Dark Energy Survey, un progetto internazionale dedicato all’osservazione di centinaia di milioni di galassie con lo scopo di mapparne la posizione e studiare l’espansione accelerata dell’Universo ad opera della misteriosa energia oscura. Si tratta della più lontana supernova mai osservata, ma le sorprese non finiscono qui. Infatti DES16C2nm il tipo più raro e brillante di supernovae, dette super luminose. Come discusso su “The Astrophysical Journal”, questa supernova da record ci aiuterà non solo a capire l’evoluzione stellare ma a studiare meglio il destino dell’Universo.
Questo genere di supernovae sono decine di volte più brillanti delle supernovae di tipo Ia, utilizzate come “candele standard” per determinare le distanze delle galassie più remote. Avere a disposizione un campione di supernovae super luminose ci potrebbe così permettere di spingere il nostro sguardo più lontano e misurare distanze ancora maggiori. Ma per poterle utilizzare correttamente come candele standard è importante capire il meccanismo che genera queste violente esplosioni. Osservare la luce prodotta da questa supernova è fondamentale, come ricorda il coordinatore del lavoro, Matthew Smith dell’Università di Southhampton, in quanto la luce “ci informa della quantità di metalli prodotti nell’esplosione e della temperatura dell’esplosione stessa, che sono entrambe fondamentali per capire che cosa causa e governa queste esplosioni cosmiche”. Alla base di queste supernovae ci sarebbe la formazione di una magnetar, cioè una stella di neutroni con un fortissimo campo magnetico, che gioca un ruolo cruciale nell’aumento di luminosità osservato. Un fenomeno molto raro, dal momento che l’ultima supernova come DES16C2nm è stata vista circa dieci anni fa. Ma in queste rare e brillanti esplosioni cosmiche potrebbe nascondersi un nuovo potente strumento per indagare l’Universo che ci circonda.
MR
Nell’immagine: La regione di cielo prima e dopo l’esplosione di DES16C2nm (Mathew Smith e collaborazione DES)
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21/02/2018 - La Galassia di Andromeda? Non è poi così pesante
La Galassia di Andromeda? Non è poi così pesante
Dista circa due milioni di anni luce da noi ed è sempre stata considerata la sorella maggiore della Via Lattea. Ma la Galassia di Andromeda, che gli appassionati di astronomia conoscono bene, potrebbe essere più leggera di quanto si pensasse finora. A dimostrarlo è un team di astronomi coordinati da Prajwal Kafle dell’International Centre for Radio Astronomy Research e dell’Università dell’Australia Occidentale, che ha studiato il moto delle stelle più veloci nella Galassia di Andromeda. Un lavoro che ha permesso di “pesare” la galassia e scoprire che la sua massa si aggira intorno a circa 800 miliardi di masse solari, in linea con la massa stimata della Via Lattea. Lo studio, pubblicato sulle “Monthly Notices of the Royal Astronomical Society”, è di grande importanza per comprendere la struttura del gruppo locale di galassie e per avere un quadro più chiaro di quale sarà il destino della nostra Galassia.
La misura compiuta da Kafle e colleghi si basa sul fatto che il moto delle stelle è chiaramente influenzato dal campo gravitazionale della galassia, che dipende dalla massa totale. Ad esempio, maggiore è la massa della galassia è più alta deve essere la velocità richiesta a una stella per allontanarsi nello spazio, quella che solitamente è nota come velocità di fuga. Misurando le orbite stellari i ricercatori hanno così potuto ottenere una misura della massa di Andromeda, evidenziando ad esempio che il contenuto di materia oscura è circa un terzo rispetto a quello stimato finora. Da questi nuovi dati i ricercatori hanno quindi dimostrato che nel futuro scontro fra le due galassie, la nostra non sarà inghiottita da Andromeda, ma sarà uno scontro alla pari. Una collisione che gli scienziati stanno già studiando con opportune simulazioni al computer, anche se avverrà fra diversi miliardi di anni.
Nell’immagine: Simulazione di uno scontro fra la Via Lattea e la Galassia di Andromeda (ICRAR)
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19/02/2018 - Quando i buchi neri diventano ingordi
Quando i buchi neri diventano ingordi
I mostruosi buchi neri supermassivi al centro delle galassie possono crescere molto velocemente, anche di più delle galassie che li ospitano. Questo eccesso di “ingordigia” è stato scoperto da un team internazionale di astronomi grazie al telescopio spaziale per raggi X “Chandra” della Nasa. Analizzando un campione di buchi neri a distanze comprese fra 4,3 e 12,2 miliardi di anni luce, gli astronomi hanno scoperto che il loro tasso di crescita è tanto maggiore quanto più pesante è il buco nero. I dati mostrano che questa situazione può portare a condizioni in cui i buchi neri crescono più velocemente delle galassie stesse, contrariamente a quanto si pensasse finora. La scoperta, discussa in due articoli su “Monthly Notices of the Royal Astronomical Society”, ci aiuta a capire meglio come i buchi neri supermassivi possano influenzare l’evoluzione delle galassie.
Questi giganteschi mostri cosmici possono pesare da centinaia di milioni fino a miliardi di masse solari, e manifestano la loro attività con potenti getti di materia e luce che si estendono per migliaia di anni luce nello spazio. Sfruttando la potenza di “Chandra”, di “Hubble” e di altri osservatori, i ricercatori hanno ricostruito il tasso di crescita dei buchi neri e delle galassie a diverse distanze da noi. Dal momento che guardare lontano significa guardare indietro nel tempo, ciò equivale a determinare la crescita di buchi neri e galassie in diverse epoche cosmiche. Secondo i modelli il rapporto fra i due tassi di crescita è sempre lo stesso, mentre il gruppo di astronomi, coordinati da Guang Yang della Penn State University ha mostrato che nelle galassie più grandi questo rapporto può essere anche dieci volte superiore a quello delle galassie più piccole.
Un risultato confermato da un secondo studio di Mar Mezcua dell’Istituto di Scienze Spaziali di Spagna, che ha permesso di stimare la massa di buchi neri supermassivi all’interno di un campione di galassie molto brillanti. Anche in questo caso, la massa misurata è superiore a quella attesa, a conferma che la crescita dei buchi neri è maggiore rispetto a quanto previsto dai modelli.
Preprint Articolo Merzcua et al.
Nell’immagine: Campo di galassie dell’Hubble Deep Field South ripreso dal telescopio spaziale “Hubble” e “Chandra”, in cui si evidenzia la presenza di un buco nero supermassivo, un cui raffigurazione artistica è presentata nel riquadro (NASA/CXC/Penn. State/G. Yang et al and NASA/CXC/ICE/M. Mezcua et al.; Optical: NASA/STScI; Illustration: NASA/CXC/A. Jubett)
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16/02/2018 - Svelato il mistero delle aurore danzanti
Svelato il mistero delle aurore danzanti
Le aurore boreali sono fra gli spettacoli più belli della natura. Chiamate anche “luci del nord”, le aurore sono famose per il loro aspetto evanescente e i loro bellissimi colori, che risaltano moltissimo nelle fotografie. Sappiamo che le aurore si formano dall’interazione delle particelle del vento solare con il campo magnetico terrestre, ma molti aspetti di questo fenomeno sono ancora da scoprire. Ad esempio la formazione delle cosiddette aurore pulsanti, spesso visibili nelle luci dell’alba e solo di recente studiate in dettaglio. Sfruttando il satellite giapponese Exploration of energization and Radiation in Geospace (ERG), anche noto come Arase, un team dell’Università di Tokyo ha osservato per la prima volta il fenomeno fisico alla base delle aurore pulsanti. Lo studio, apparso su “Nature”, permette di comprendere meglio le complesse dinamiche legate al vento solare e al suo impatto sulla nostra atmosfera.
Secondo i modelli infatti, le aurore polari si formano quando le particelle cariche del vento solare, ad esempio protoni o elettroni, entrano nel campo magnetico terrestre e vengono “incanalate” nelle regioni intorno ai poli. Interagendo con gli strati più alti della ionosfera, a centinaia di chilometri di altezza, queste particelle eccitano gli atomi del gas atmosferico. Dopo un brevissimo intervallo, questi atomi si diseccitano emettendo luce a diverse lunghezze d’onda, ad esempio rosso e verde, i tipici colori delle autore.
Secondo Satoshi Kasahara, che ha coordinato il lavoro su “Nature”, le aurore pulsanti si formano in seguito a violente riconfigurazioni del campo magnetico, che danno origine a delle onde nella magnetosfera chiamate chorus waves, cioè “onde corali”. Grazie al satellite Arase, è stato possibile per la prima volta osservare queste onde che interagiscono con gli elettroni nell’atmosfera, facendoli precipitare nelle regioni più interne dove eccitano i gas e danno origine alle aurore pulsanti. Le stesse aurore che vediamo danzare e pulsare alle luci dell’alba nei cieli polari.
Nell’immagine: Il satellite Arase dell’agenzia spaziale giaponese (Credit: ERG Science Team)
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14/02/2018 - ‘Oumuamua potrebbe avere migliaia di “cugini” nel Sistema Solare
‘Oumuamua potrebbe avere migliaia di “cugini” nel Sistema Solare
Nel Sistema Solare si aggirano migliaia di asteroidi che arrivano dallo spazio interstellare e che sono stati catturati dalla gravità del Sole e dei pianeti. E' questo il risultato di un nuovo studio condotto all'Università di Harward, che ha permesso di stimare il numero di questi asteroidi nati al di fuori del Sistema Solare e capitati vicino a noi per una complessa “carambola” gravitazionale. Il più famoso di questi corpi celesti “alieni” è ‘Oumuamua (1I/2017 U1), scoperto lo scorso ottobre e subito balzato in cima alle cronache di tutto il mondo. Dal nuovo studio, in pubblicazione su The “Astrophysical Journal”, sembra però che questo corpo celeste non sia poi così peculiare, e che abbia nel Sistema Solare altre svariate migliaia di “cugini”. Stimare il numero di questi asteroidi interstellari è di grande interesse per gli scienziati, non solo per la possibilità di studiare interessanti testimoni provenienti dall'esterno del Sistema Solare, ma anche per comprendere la pericolosità di questi oggetti per il nostro pianeta.
Scoperto lo scorso ottobre dal progetto Pan-STARRS-1, ‘Oumuamua è il primo asteroide interstellare, che cioè proviene da una regione esterna al nostro Sistema Solare. Per capire quanti asteroidi simili esistano, Manasvi Lingam Abraham Loeb dell’Università di Harward hanno realizzato una complessa simulazione al computer per studiare la capacità del Sole e di Giove di catturare questi asteroidi grazie al loro campo gravitazionale. Dalle simulazioni sembra che in ogni momento nel Sistema Solare vi siano alcune migliaia di asteroidi come ‘Oumuamua. I ricercatori hanno fatto un confronto con il sistema di Alfa Centauri, includendo le stelle Alfa Centauri A e B, per capire quando fosse peculiare la situzione del nostro Sistema Solare. Il risultato è ancora più sorprendente, perchè le simulazioni hanno mostrato che questo sistema stellare è in grado non solo di catturare nuovi asteroidi, ma persino di attrarre pianeti di dimensioni terrestri. Le stime ottenute in questo nuovo studio, sostengono gli autori, potrebbero avere anche implicazioni sullo studio di come la vita si è propagata nell’Universo, secondo una variazione della famosa teoria della litopanspermia. E forse anche la vita sul nostro pianeta potrebbe essere arrivata a bordo di uno di questi curiosi “viaggiatori” dello spazio.
Nell’immagine: Raffigurazione artistica di ‘Oumuaua ( ESO/M. Kornmesser)
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13/02/2018 - Così nascono i campi magnetici cosmici
Così nascono i campi magnetici cosmici
Nell’Universo possiamo trovare campi magnetici di ogni tipo, da quelli che riempiono lo spazio intergalattico a quelli che circondano le stelle e i pianeti. Ma capire i dettagli della formazione di questi campi magnetici è un problema complesso, che sta dando filo da torcere agli astrofisici di tutto il mondo. Ma un nuovo importante passo per capire questo enigma arriva dall’Università di Chicago, dove un gruppo di scienziati è riuscito a confermare sperimentalmente uno dei fenomeni che sarebbero alla base della formazione dei campi magnetici cosmici. Sfruttando uno dei laboratori laser più potenti al mondo, I ricercatori hanno infatti dimostrato la cosiddetta dinamo turbolenta, fenomeno in cui i moti turbolenti di un gas possono amplificare l’intensità di un campo magnetico. Il lavoro, pubblicato su “Nature Communications”, è la prima dimostrazione di labortorio di un fenomeno studiato e discusso dai fisici per almeno un secolo.
Come suggerisce il nome, alla base della dinamo turbolenta ci sono i movimenti caotici delle molecole in un gas, che avrebbero l’effetto di amplificare e rendere più intenso il campo magnetico in una regione di spazio. Si tratta di un fenomeno analogo alla dinamo meccanica, dove una bobina rotante all’interno di un campo magnetico genera corrente elettrica. In questo caso, la dinamo ha effetto opposto, cioè dal passaggio di corrente si crea e mantiene un campo magnetico. Per confermare questa teoria, I ricercatori hanno preparato un esperimento alla OMEGA Laser Facility di Rochester, nei pressi di New York, dove hanno utilizzato il laser per creare un plasma turbolento, ovvero un gas ad alta temperatura completamente ionizzato. Nonostante sia stato studiato da anni dal punto di vista teorico, questo fenomeno è sempre stato estremamente complesso da realizzare in laboratorio, vista la necessità di creare un gas sufficientemente caldo e volatile in modo da garantire l’opportuno grado di turbolenza. In questo nuovo esperimento è stato invece possibile osservare la crescita di intensità di un campo magnetico in pochi miliardesimi di secondo, fino a raggiungere valori milioni di volte superiori al campo magnetico terrestre
Nell’immagine: Una simulazione dell’esperimento sulla dinamo turbolenta (Flash Center for Computational Science)
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08/02/2018 - Le Cronache Spaziali su Reteconomy !
Le Cronache Spaziali su Reteconomy !
Dal prossimo 12 febbraio, ore 19 (replica 21.30) va in onda su Reteconomy (Sky 512, DTT 260) Cronache Spaziali, una “striscia” quotidiana della durata di un quarto d’ora circa, un viaggio tra Terra e Spazio composto di informazioni, immagini, curiosità del cielo. Per scoprire, informarsi, meravigliarsi, interrogarsi. Una trasmissione di cui tutti possono essere protagonisti.
Presentata dalla giornalista televisiva di Reteconomy Elena Sanfilippo Ceraso, Cronache Spaziali si apre con un Almanacco, in cui si ricordano eventi della storia dell’astronomia e dell’astronautica avvenuti nello stesso giorno di anni passati, tratti dal Calendario storico di Nuovo Orione.
Seguono L’Editoriale, curato alternativamente dai Direttori Editoriali di Nuovo Orione e le Stelle, Piero Stroppa e Walter Riva, e La Notizia, una news di agenzia dal mondo della ricerca astronomica.
Abbiamo quindi la rubrica Forse non sapevate che…, una raccolta di storie e curiosità del cielo curata da Walter Ferreri.
In chiusura, uno spazio aperto a tutti gli spettatori: La Foto del giorno, nel quale viene presentata un’astrofotografia scelta da Federico Manzini tra quelle caricate dagli autori stessi sul sito di Astronomianews. Di questa immagine vengono descritti i dettagli tecnici che ne hanno permesso la realizzazione, senza trascurare una presentazione dell’oggetto celeste che è stato ripreso e… dell’autore della ripresa!
Si può assistere a Cronache Spaziali anche in streaming sulla pagina www.reteconomy.it/live.aspx, dove è disponibile on demand dal giorno successivo a ogni messa in onda.
Sintonizzatevi!
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08/02/2018 - Acqua sui pianeti di TRAPPIST-1?
Acqua sui pianeti di TRAPPIST-1?
Sui pianeti del sistema TRAPPIST-1 potrebbe esserci acqua. E’ quanto emerge da un nuovo studio che analizza in modo più dettagliato la struttura e composizione dei pianeti in TRAPPIST-1, considerato fra i più interessanti “cugini” del Sistema Solare. Un team internazionale coordinato da Simon Grimm dell’Università di Berna ha sfruttato un modello teorico molto sofisticato per determinare le densità medie dei pianeti nel sistema. I risultati, pubblicati su Astronomy & Astrophysics, sono di grande interesse per lo studio dei pianeti extrasolari. In particolare, sembra che alcuni di questi pianeti sia fatto per circa il 5% da acqua, una quantità almeno 250 volte superiore a quella presente sul nostro pianeta.
Scoperto nel 2016, il sistema di TRAPPIST-1 si trova a cerca 40 anni luce da noi ed è fra i sistemi extrasolari più studiati, dal momento che contiene almeno sette pianeti grandi all’incirca come la Terra. Successivamente alla scoperta, il sistema è stato studiato con altri strumenti, fra cui il Very Large Telescope, il telescopio spaziale “Spitzer” e il telescopio spaziale “Kepler”. In questo nuovo lavoro, Grimm e colleghi hanno combinato i dati disponibili su questi pianeti per determinare la densità media dei pianeti, da cui è possibile stimare che non si tratti di corpi celesti puramente rocciosi.
Naturalmente la possibile presenza di acqua non implica che essa si trovi allo stato liquido. I pianeti pià vicini alla stella principale ricevono molta luce, ed è probabile che l’acqua vada a formare una spessa atmosfera, mentre per quelli più lontani è probabile che contengano ghiaccio d’acqua. Il più simile alla Terra, TRAPPIST-1e, ha una densità superiore a quella della Terra, e perciò potrebbe avere un nucleo più pesante di quello terrestre e non avere necessariamente oceani, ghiaccio oppure un’atmosfera. Continuano le analisi per capire questo curioso sistema planetario, che sarà uno dei sistemi di maggiore interesse per i telescopi di prossima generazione, come il “James Webb Space Telescope”
Nell’immagine: Immagine artistica di uno dei pianeti di TRAPPIST-1 (ESO/M. Kornmesser)