Astronews a cura di Massimiliano Razzano
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08/08/2018 - Asteroidi, stelle variabili, e una cometa. Ecco il primo “bottino” della sonda TESS
Asteroidi, stelle variabili, e una cometa. Ecco il primo “bottino” della sonda TESS
Come secondo lavoro, potrebbe andare a caccia di comete. E’ questo il curioso “curriculum” del Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS), la missione NASA lanciata lo scorso 18 aprile e dedicata allo studio dei pianeti extrasolari. Prima ancora di iniziare la fase di osservazione scientifica lo scorso 25 luglio, TESS ha infatti individuato la cometa C/2018 N1, scoperta a fine giugno dal satellite Near-Earth Object Wide-field Infrared Survey Explorer (NEOWISE). Il risultato conferma la capacità di osservare per lungo tempo la stessa porzione di cielo, in modo da identificare le variazioni di luminosità dei corpi celesti presenti nel campo visivo, una caratteristica fondamentale per scoprire nuovi esopianeti.
La cometa è stata “catturata” nel corso di una osservazione lunga 17 ore condotta il 25 luglio, nel corso di una serie di osservazioni di test. La cometa, che in quel momento di trovava a 48 milioni di chilometri nella costellazione del Pesce Australe, è ben visibile nelle immagini di TESS mentre solca il campo inquadrato. Le immagini, raccolte verso la fine della fase di commissioning, mostrano solo una frazione del campo di vista di TESS. Nel corso dell’osservazione, è possibile vedere anche il cambio di direzione dell’orbita. Ma la cometa non è l’unico oggetto celeste visibile nel campo inquadrato. E’ anche possibile distinguere alcune stelle variabili e un gruppetto di asteroidi, visibili come puntini bianchi che solcano il cielo.
L’intera sequenza di immagini è stata messa a disposizione dalla NASA a questo indirizzo
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01/08/2018 - Molecole radioattive da un cadavere stellare
Molecole radioattive da un cadavere stellare
Le stelle possono produrre molecole radioattive, ora ne abbiamo le prove. Un team internazionale coordinato da Tomasz Kamiński dello HHarvard-Smithsonian Center for Astrophysics ha infatti scoperto la presenza di radioattività in CK Vulpeculae, un “cadavere” stellare a più di 2000 anni luce da noi. Grazie alle antenne dell'Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA) e del NOrthern Extended Millimeter Array (NOEMA), i ricercatori hanno infatti identificato una sorgente di alluminio-26, un isotopo radioattivo presente nelle molecole intorno a CK Vupeculae. Finora le tracce di Al-26 erano state trovate nello spazio interstellare grazie a osservazioni di raggi gamma, ed è la prima volta che è possibile localizzarne con precisione la sorgente. Lo studio, pubblicato su Nature Astronomy, ci aiuta a far luce sull’evoluzione stellare e sui processi fisici che avvengono all’interno delle stelle.
CK Vulpeculae è una “vecchia conoscenza” per gli astronomi, che la videro apparire per la prima volta nel 1670 come una stella rossa e brillante. Negli anni successivi la sorgente diventò sempre più fioca fino a diventare invisibile ad occhio nudo. Ma grazie alle nuove osservazioni, gli scienziati hanno potuto identificare le tracce di alluminio e di fluorina radioattivi nelle molecole che circondano quel che rimane di CK Vul. Infatti secondo i modelli questa sorgente è ciò che resta dello scontro fra due stelle, una delle quali era molto probabilmente una gigante rossa con una massa compresa fra 0.8 e 2.5 masse solari. Grazie allo studio di queste molecole radioattive, di cui per la prima volta è stata trovata una sorgente, potremo svelare alcuni tasselli ancora mancanti nell’evoluzione stellare, e sondare gli strati stellari più interni dove sono prodotte queste molecole.
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30/07/2018 - Ascoltando il battito del Sole
Ascoltando il battito del Sole
In quel brusio c’è il “battito cardiaco” del nostro Sole. Per convincersene, basta ascoltare i suoni prodotti da un team di ricercatori del Goddard Space Flight Center della NASA a partire dalle osservazioni della nostra stella. Utilizzando i dati raccolti dalla sonda Solar and Heliospheric Observatory (Soho) della NASA e dell’Esa, il ricercatore Alexander G. Kosovichev ha infatti creato una sequenza di suoni che ci permette di ascoltare i movimenti dell’atmosfera e delle regioni più interne del Sole. Il lavoro è un nuovo esempio di sonificazione, una tecnica che permette di trasformare in suoni i dati raccolti da esperimenti scientifici, in modo da aumentarne la fruibilità e riuscire ad estrarre nuove informazioni.
Il lavoro è partito dalle osservazioni Doppler realizzate da Soho, che permettono di ricostruire i movimenti superficiali del Sole. Questi dati sono stati opportunamente filtrati e trattati, in modo da eliminare anche gli effetti spuri dovuti al movimento della sonda stessa e da selezionare solo le onde più pulite. Il risultato è una sequenza di suoni che ci permette di esplorare anche gli strati più interni del Sole. Anche se non è possibile osservare direttamente l’interno della nostra stella, possiamo infatti studiare la propagazione delle onde al suo interno, in modo analogo a quanto accade per le onde sismiche che si utilizzano per studiare l’interno del nostro pianeta. I suoni ci permettono quindi di capire meglio com’è fatto il Sole, come sottolinea Alex Young, direttore della Divisione di scienze eliofisiche del Goddard Space Flight Center,“Non abbiamo un canale diretto per guardare all’interno del Sole. Non abbiamo alcun microscopio che ci permetta di zoommare all’interno del Sole; quindi, usare le vibrazioni di una stella o del Sole ci permette di guardare al suo interno”.
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26/07/2018 - UN LAGO SOTTERRANEO SU MARTE
UN LAGO SOTTERRANEO SU MARTE
Acqua su Marte: liquida e salata. Sono queste le prime conclusioni delle indagini compiute con il radar italiano Marsis (Mars Advanced Radar for Subsurface and Ionosphere Sounding) della sonda europea Mars Express. Allo studio, guidato da Roberto Orosei dell’INAF, hanno partecipato scienziati di vari centri di ricerca italiani.
I risultati confermano che sotto la superficie di Marte c’è acqua, probabilmente salata, visto che il bacino si trova a 1500 m di profondità, dove la temperatura è ben al di sotto di 0°C. I sali, probabilmente simili quelli che la sonda Phoenix della NASA ha trovato nel ghiaccio della zona circumpolare nord, agiscono da “antigelo”.
Acqua, sali, rocce e protezione dalla radiazione cosmica sono ingredienti che potrebbero far pensare anche a una nicchia biologica. I ricercatori sono convinti che potrebbero esserci altre zone con condizioni favorevoli alla presenza di acqua in profondità su Marte e continuano quindi a investigare.Grazie alla sonda Viking della NASA, dal 1976 è evidente che la superficie di Marte fosse un tempo coperta da mari, laghi e fiumi, e le successive missioni hanno confermato sempre più tale presenza. “Il grande dilemma era quindi quello di stabilire dove fosse finita tutta quell’acqua”, dice Orosei. “Buona parte di questa è stata portata via dal vento solare, che spazzò quella che man mano si vaporizzava dalla superficie. Un’altra porzione è depositata sotto forma di ghiaccio nelle calotte, soprattutto quella nord, e negli strati prossimi alla superficie o è legata al terreno nel permafrost. Ma una parte doveva essere rimasta intrappolata nelle profondità e potrebbe ancora trovarsi allo stato liquido”.
Questo era ciò che si ipotizzava a metà degli Anni 90, quando l’ASI propose di adottare un radar a bassa frequenza per investigare il sottosuolo marziano a grande profondità. Il radar Marsis fu ideato e proposto da Giovanni Picardi dell’Università La Sapienza di Roma, e il lancio con la sonda Mars Express avvenne nel 2003.Marsis opera a frequenze tra 1,5 e 5 MHz in grado di penetrare nel terreno marziano fino a 4-5 km di profondità, ma anche di misurare con accuratezza lo stato e le variazioni della ionosfera marziana. Un contributo importante venne dai colleghi del JPL della NASA, che curò lo sviluppo dell’antenna, composta da due leggerissimi tubi di kevlar lunghi 20 m ciascuno, che partirono ripiegati in una scatola lunga poco più di un metro.
Per più di 12 anni Marsis ha sondato le calotte polari del Pianeta Rosso in cerca di indizi di acqua liquida, ma non aveva ancora ottenuto la certezza della sua presenza. La svolta è avvenuta analizzando i dati acquisiti nella regione del Planum Australe tra il 2012 e il 2015. I profili radar, ottenuti da orbite diverse, in diversi periodi dell’anno marziano, hanno permesso di identificare un’area di circa 20 km quadrati (193°E, 81°S) nella quale il sottosuolo è molto riflettente, al contrario delle aree circostanti.La parte più complessa del lavoro è stata l’analisi dei segnali radar per arrivare a determinare la natura dello strato riflettente. Questa parte del lavoro è durata quasi 4 anni, e si è conclusa con l’identificazione di materiali che contengono notevoli quantità di acqua liquida.
“Questi risultati indicano che ci troviamo probabilmente in presenza di un lago subglaciale”, conclude Elena Pettinelli dell’Università Roma Tre, “simile ai laghi presenti al di sotto dei ghiacci antartici terrestri, relativamente esteso e con una profondità certamente superiore alla possibilità di penetrazione delle frequenze usate da Marsis”.
In Figura, una composizione artistica della sonda Mars Express e diuna sezione radar dei depositi stratificati polari meridionali. La linea bianca più a sinistra è l’eco del radar di superficie, mentre le macchie blu chiaro lungo l’eco radar basale evidenziano aree di riflettività molto alta, interpretate come dovute alla presenza di acqua. Fonte: Media-INAF
Piero Stroppa
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23/07/2018 - IL PREMIO JAVIER GOROSABEL ALLE COLLABORAZIONI PROAM
IL PREMIO JAVIER GOROSABEL ALLE COLLABORAZIONI PROAM
In ambito europeo, la Spagna punta tantissimo alle collaborazioni ProAm (tra professionisti e amatori) e già da qualche tempo sono in corso alcuni programmi che vedono affiancati astronomi e astrofili. Per via della pratica ormai consolidata, la Sociedad Española de Astronomía (SEA) ha istituito il Premio Javier Gorosabel de colaboración ProAm in astrofisica, che vuole riconoscere le collaborazioni in corso o che hanno portato a indagini degne di nota.
Di questo premio, intitolato a Javier Gorosabel (1969-2015), astronomo specializzato in astronomia gamma, nonché astrofilo, si è conclusa recentemente la prima edizione, con la proclamazione dei vincitori, lo scorso 19 luglio. La giuria ha deciso di concedere l'ex-aequo al team guidato da David Martinez-Delgado (Max-Planck-Institut für Astronomie) e al gruppo coordinato da Ricardo Hueso (Università dei Paesi Baschi / EHU).
Il gruppo di Martinez-Delagado si occupa dello studio delle code mareali conseguenti alla distruzione di galassie satelliti e rilevabili mediante immagini profonde e specifiche elaborazioni. Del team fanno parte: [Am] R. Jay GaBany (USA), Johannes Schedel (Austria), Mark Hanson (USA), Josep Maria Drudis (Spagna), Karel Teuwen (Belgio), Giuseppe Donatiello (Italia), Jordi Gallego (Spagna), Fabian Neyer (Svizzera); [Pro] David Valls-Gabaud (Osservatorio di Parigi); María A. Gómez-Flechoso (Università Complutense di Madrid); Ignacio Trujillo (IAC); Armando Gil de Paz (Università Complutense di Madrid); Julio A. Carballo-Bello (Istituto di Astrofisica, Pontificia Universidad Católica de Chile); Elisa Toloba (University of the Pacific, USA).
Hueso guida un progetto di sorveglianza sistematica dei pianeti finalizzato alla rilevazione di impatti. Del gruppo fanno parte alcuni astrofili ben noti per le loro immagini planetarie, come: [Am] Marc Delcroix (Societé Astronomique de France), Josep María Gómez-Forrellad (Fundacio Observatorio Esteve Duran), Damian Peach (Regno Unito), Christopher Go (Filippine), Anthony Wesley (Australia), Phil Miles (Australia), Trevor Barry (Australia), Jean-Luc Dauvergne (Francia), Donald Parker (Stati Uniti). Clyde Foster (Sudafrica), Josep Soldevilla e Joaquín Camarena (Spagna); [Pro] Ricardo Hueso (UPV/EHU) Sanchez-Lavega e Agostino (UPV/EHU).
Il premio conferito ai principal investigator consiste in una riproduzione in bronzo dell’asteroide (6192) Javiergorosabel e soprattutto tempo di osservazione garantito presso tutti i grandi Osservatori spagnoli gestiti dall’Istituto di Astrofisica delle Canarie (IAC), Calar Alto Observatory, Javalambre Astrophysical Observatory, Osservatorio della Sierra Nevada e Montsec Astronomical Parc che hanno sponsorizzato e sostenuto l’iniziativa.
Giuseppe Donatiello
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23/07/2018 - Quando le stelle vanno in pausa pranzo
Quando le stelle vanno in pausa pranzo
Nella costellazione dell’Auriga c’è una stella che ci tiene a farci sapere le sue abitudini alimentari. E’ questa la conclusione di un team internazionale, che ha studiato in dettaglio le variazioni di luminosità di Rw Aur A, una giovane stella che fa parte di un sistema binario. Gli astronomi, coordinati da Hans Moritz Gunther del prestigioso Massachusetts Institute of Technology, hanno infatti utilizzato il telescopio spaziale per raggi X “Chandra” per studiare le variazioni di luminosità della stella e monitorarne lo spettro, scoprendo che periodicamente Rw Aur A diventa più fioca perché oscurata da un disco di polveri. Confrontando le osservazioni con sofisticate simulazioni al computer, i ricercatori hanno concluso che il disco di materia è molto probabilmente il risultato della collisione fra giovani pianeti che circondano la stella, i cui detriti vanno a cadere sulla stella. Lo studio, apparso su The Astrophysical Journal, ci aiuta a far luce sul comportamento della giovani stelle, e sulla relazione con i dischi protoplanetari che le circondano.
Rw Aur A, che si trova a circa 450 anni luce da noi, è una giovane stella che ha alcuni milioni di anni, e forma un sistema binario insieme alla compagna, Rw Aur B. Il peculiare comportamento di questa stella ha catturato l’attenzione degli astronomi già dal 1937, quando la stella diminuì di luminosità per circa un mese, un evento che si è ripetuto successivamente dopo alcuni decenni. Più recentemente, la stella ha subito importanti variazioni di luminosità nel 2011 e nel 2014. Le simulazioni indicavano che un simile calo di luminosità poteva essere interpretato come conseguenza della collisione fra due pianeti, capace di produrre un disco di polveri che oscura la stella. Queste ipotesi sono state supportate dalle osservazioni nei raggi X di “Chandra”, che hanno mostrato un eccesso di ferro, che secondo gli astronomi può generarsi proprio nello scontro fra due pianeti. Uno scontro che fornisce abbastanza materiale per alimentare la stella nel suo colossale pasto cosmico.
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21/07/2018 - L’Universo “quasi perfetto” di Planck
L’Universo “quasi perfetto” di Planck
L’Universo in cui viviamo è molto simile a quello che ci aspettiamo. E’ quanto emerge dalle ultime analisi dei dati di Planck, il satellite europeo dedicato allo studio della radiazione cosmica di fondo. Il team della missione ha infatti rilasciato l’ultima versione dei dati raccolti dalla missione, dai quali emerge un quadro dell’Universo in accordo con le teorie cosmologiche moderne, che descrivono un cosmo che si espande con un tasso sempre più alto. Un cosmo in accelerazione dove l’energia oscura e la materia oscura la fanno da padrone, riempiendo circa il 95% del bilancio di massa ed energia dell’Universo. Questa nuova data release, che fa seguito alle precedenti rilasciate nel 2013 e nel 2015, ci mette però di fronte a un grande mistero che riguarda la misura della costante di Hubble. Un mistero da cui, sostengono gli scienziati, potrebbero emergere indizi di nuove leggi oltre la fisica che conosciamo oggi.
Lanciato nel 2009, Planck è il più sofisticato e preciso strumento dedicato alla radiazione cosmica di fondo, ovvero quella famosa “eco del Big Bang” generata circa 380 mila anni dopo la grande esplosione, il Big Bang appunto, da cui è nato l’Universo. Planck, che ha raccolto dati dal 2009 al 2013, ha permesso di misurare le piccolissime anisotropie nella radiazione cosmica di fondo, che secondo gli astronomi rappresentano i “semi” da cui sono nate le prime strutture cosmiche. Ma se le misure della frazione di materia barionica, materia oscura ed energia oscura, è in accordo con quanto ci si aspetta, restano ancora molti dubbi sul valore della costante di Hubble, che non è in accordo con le attuali misure basate sull’esplosione delle supernovae di tipo Ia. Secondo le misure astronomiche, il valore della costante di Hubble si aggira sui 73 Km/s/Mpc, mentre i dati di Planck suggeriscono un valore inferiore, intorno a 67 Km/s/Mpc. Questa discrepanza, che gli astronomi chiamano “tensione”, è molto difficile da spiegare solamente in base alle incertezze sperimentali, e potrebbe essere un importante indizio verso la scoperta di “nuova fisica”, cioè di fenomeni non descrivibili secondo le leggi che conosciamo oggi.
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18/07/2018 - UNA DOZZINA DI NUOVE LUNE PER GIOVE
UNA DOZZINA DI NUOVE LUNE PER GIOVE
Accade spesso che ricerche aventi determinate finalità producano anche altri risultati non meno importanti. È così che Scott S. Sheppard e il suo gruppo della Carnegie Institution hanno individuato dodici nuove lune intorno a Giove.
I nuovi satelliti sono stati trovati nella primavera 2017 mentre il gruppo era intento a cercare oggetti lontani nel Sistema Solare, a caccia del presunto Pianeta 9. Il gruppo non è nuovo a ritrovamenti importanti, poiché nel 2014 aveva già rinvenuto l’oggetto con l’orbita conosciuta più distante nel Sistema Solare. La scoperta delle lune gioviane è quindi la diretta conseguenza della prosecuzione di tali ricerche.
I dati ottenuti sono stati presi in carico da Gareth Williams del Minor Planet Center e utilizzati per calcolare le orbite dei nuovi oggetti, risultati appartenenti al sistema gioviano dopo circa un anno di analisi dei dati, integrando pure nuove osservazioni.
Nove delle nuove lune fanno parte di una lontana famiglia in orbita retrograda, cioè con moto opposto alla rotazione di Giove. A sua volta, tale famiglia comprende tre distinti gruppi, accomunati da parametri orbitali molto simili e si ritiene siano ciò che rimanga di altrettanti corpi celesti disgregati a seguito di collisioni. Tutti i nuovi oggetti impiegano circa 2 anni per completare una rivoluzione intorno al gigante gassoso.
Due lune, invece, fanno parte di un gruppo con orbita più interna e prograda (Figura), anch’essa accomunata da parametri molto simili, tanto da far pensare che anch’esse siano frammenti di un corpo più grande frantumatasi in passato. Queste due lune impiegano poco meno di 1 anno per completare un’orbita.
Se undici delle nuove lune sono sostanzialmente piuttosto ordinarie per il sistema di Giove, una in particolare è un oggetto veramente bizzarro. È la più piccola luna nota di Giove, con un diametro inferiore al chilometro, e percorre in un anno e mezzo un’orbita più distante e inclinata rispetto al gruppo progrado, andando a intersecare l’orbita delle lune retrograde esterne. C’è quindi la possibilità che, su tempi relativamente brevi, vada a collidere con una di esse, riducendosi in polvere.
Il team ritiene che questa minuscola luna prograda 'strana' sia il residuo di una più grande e genitrice di alcune delle lune retrograde formatisi a seguito di collisioni passate. Per questa insolita luna, è stato proposto il nome Valetudo, pronipote di Giove, nonché dea della salute e dell'igiene.
Tutte le nuove lune, per via delle piccole dimensioni, sono fortemente influenzabili dal gas e dalla polvere presenti nel sistema gioviano. Se si fossero formate con Giove, le loro orbite sarebbero decadute già da molto tempo a causa dell’attrito che le avrebbe fatte spiraleggiare verso il pianeta verso l’inevitabile distruzione. La loro esistenza dimostra che la genesi è relativamente recente.
Le nuove lune sono state scoperte mediante la Dark Energy Camera (DECam) montata al telescopio Blanco da 4 m presso l’Osservatorio di Cerro Tololo in Cile. Le osservazioni di follow-up sono state invece eseguite con il telescopio Magellan di 6,5 m a Las Campanas sempre in Cile e con altri telescopi in Arizona e alle Hawaii.
Con queste aggiunte, il numero di satelliti intorno a Giove sale a 79, ripristinando il primato per il gigante del Sistema Solare.
Giuseppe Donatiello
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15/07/2018 - Neutrini e raggi gamma, un nuovo capitolo nell’astronomia multimessaggero
Neutrini e raggi gamma, un nuovo capitolo nell’astronomia multimessaggero
È bastato un solo neutrino a cambiare la storia dell’astronomia. Un neutrino che ha viaggiato nello spazio per 3,7 miliardi di anni fino ad arrivare sulla Terra, dove è stato catturato il 22 settembre 2017 dall’esperimento IceCube, immerso nei ghiacci del polo sud.
Si tratta del primo neutrino che abbiamo visto provenire da un’altra galassia. Ma questo neutrino (denominato Ic-170922A), è stato anche protagonista di un’altra svolta storica. Infatti, dalla galassia da cui è arrivato, il blazar Txs 0506+056, è arrivato anche un fiotto di raggi gamma di alta energia, rivelati dai telescopi spaziali Fermi e AGILE e dal telescopio MAGIC operante alle Canarie.
È la prima volta che riusciamo a rivelare l’emissione congiunta di fotoni e neutrini da una stessa sorgente cosmica, e gli astronomi salutano questa storica scoperta come un nuovo importante passo verso l’astronomia multimessaggero.
Tradizionalmente, gli astronomi hanno osservato il cielo tramite le diverse forme di radiazione elettromagnetica rivelate dai telescopi (onde radio, visibili, raggi X e gamma), che ci possono aiutare a capire i meccanismi fisici in atto nelle sorgenti astronomiche. Con l’astronomia multimessaggero, possiamo fare un importante passo in avanti, perché possiamo rilevare l’emissione di messaggeri di altra natura, come i neutrini.
Un importante passo in avanti era stato fatto i 17 agosto 2017, quando i rivelatori LIGO e Virgo avevano scoperto un segnale gravitazionale proveniente dalla fusione di due stelle di neutroni, un fenomeno che ha generato anche emissione luminosa osservata da moltissimi telescopi a terra e nello spazio.
Con i neutrini abbiamo ora un altro importante messaggero, che ci permette di capire i meccanismi subnucleari alla base delle emissioni osservate. Inaugurando così un nuovo capitolo dell’astronomia, che ci permetterà di studiare il cosmo in un modo del tutto nuovo.
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12/07/2018 - ESISTONO LE MEZZE STAGIONI SUGLI ESOPIANETI?
ESISTONO LE MEZZE STAGIONI SUGLI ESOPIANETI?
Chi si lamenta della irregolarità delle stagioni potrebbe rivolgersi agli esopianeti. In effetti, dove è meglio cercare indizi di vita aliena? Probabilmente, su pianeti con una buona stabilità climatica, situati nella zona abitabile della loro stella.
Questo è stato il punto di partenza di uno studio compiuto da Yutong Shan dell’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics e da Gongjie Li del Georgia Institute of Technology.
Attraverso simulazioni della dinamica dell’asse di rotazione di un esopianeta, lo studio identifica due candidati per una futura osservazione più approfondita: gli esopianeti Kepler-186f (a 500 a.l. nel Cigno, di dimensioni simili alla Terra, Figura), e Kepler-62f (una super-terra a circa 1200 a.l. nella Lira).
Entrambi appartengono a sistemi stellari con cinque pianeti: di Kepler-186f sappiamo solo che orbita in 130 giorni attorno alla sua stella, che appare a mezzogiorno sul pianeta come il Sole al tramonto sulla Terra; mentre di Kepler-62f sappiamo che è il pianeta più esterno del suo sistema e che è grande il 40% in più della Terra, cui potrebbe assomigliare molto, a meno di non essere completamente coperto da un oceano.
L’inclinazione assiale contribuisce alle stagioni e al clima, perché influisce sul modo in cui la luce della stella attorno a cui orbita colpisce la superficie del pianeta. I ricercatori suggeriscono che l’inclinazione degli assi di Kepler-186f e Kepler-62f sia molto stabile, rendendo probabile che abbiano stagioni regolari e un clima con poche variazioni.
L’importanza della stabilità dell’inclinazione dell’asse di rotazione è testimoniata da Marte, che si trova nella zona abitabile del Sistema Solare, ma con un’inclinazione assiale molto instabile, variabile da zero a 60°. Questa instabilità ha contribuito al decadimento dell’atmosfera marziana e all’evaporazione delle acque superficiali. L’inclinazione dell’asse terrestre oscilla più lievemente, tra 22,1° e 24,5°, passando da un estremo all’altro in circa 10 mila anni.
Nel Sistema Solare, la forte interazione gravitazionale tra i pianeti influenza la stabilità dell’inclinazione assiale al punto che, senza la Luna, anche la Terra potrebbe avere ampie oscillazioni dell’asse, come quelle di Marte. “Kepler-186f e Kepler-62f hanno una connessione più debole con i loro pianeti fratelli - dice Li - Non sappiamo se posseggono lune, ma i nostri calcoli mostrano che, anche senza satelliti, i loro assi di rotazione dovrebbero rimanere costanti per decine di milioni di anni».
“Non conosciamo l’origine della vita al punto da poter escludere la sua presenza su pianeti con stagioni irregolari. Anche sulla Terra la vita si presenta sotto forme notevolmente diverse, e ha mostrato un’incredibile resilienza in ambienti ostili. Ma un pianeta climaticamente stabile - conclude Shan - potrebbe rappresentare un luogo più confortevole per iniziare”». Fonte: Media-INAF
Piero Stroppa