Astronews a cura di Massimiliano Razzano
Fino al 13/11/2017 a cura di Piero Bianucci, fino al 20/01/2018 a cura di Luigi Bignami
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07/05/2018 - Lanciata InSight, la sonda che studierà il “cuore” di Marte
Lanciata InSight, la sonda che studierà il “cuore” di Marte
Dopo anni di preparazione, la sonda InSight è finalmente partita per il suo viaggio verso Marte. La sonda della NASA è stata lanciata con successo alle 13:05 italiane di sabato dalla base di Vandenberg, in California, ed è stata portata in orbita da un razzo Atlas V. Come suggerisce l’acronimo Interior Exploration using Seismic Investigations, Geodesy and Heat Transport (InSight), lo scopo della missione sarà lo studio delle regioni più interne di Marte, che ci permetterà non solo di comprendere come sia fatto il Pianeta Rosso, ma anche come si sono formati gli altri pianeti rocciosi fra cui la Terra.
Il viaggio di InSight durerà circa sei mesi, al termine dei quali la sonda si immetterà in orbita marziana e scenderà sulla superficie del Pianeta Rosso e inizierà ad “ascoltare” i segnali provenienti dal sottosuolo. Analogamente a quanto viene fatto per studiare l’interno del nostro pianeta, InSight sfrutterà la propagazione delle onde sismiche nell’interno di Marte per determinare con precisione la struttura interna di Marte. Nel corso della sua missione biennale, InSight sarà anche in grado di monitorare la distanza dalla Terra, in modo da misurare con precisione il moto di Marte sotto l’azione della gravità del Sole, da cui sarà possibile capire la componente liquida del nucleo marziano. Dalle misure della composizione interna di Marte gli scienziati sperano di trovare anche delle indicazioni di concentrazioni di acqua liquida nel sottosuolo. Insieme alle altre sonde in orbita intorno a Marte, InSight ci aiuterà a comprendere meglio il passato di Marte e la formazione dei pianeti rocciosi come Venere e la nostra Terra
Nell’immagine: Il lancio della sonda InSight (NASA)
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27/04/2018 - Scoperto un super ingorgo nell’Universo primordiale. Così sono nati gli ammassi di galassie
Scoperto un super ingorgo nell’Universo primordiale. Così sono nati gli ammassi di galassie
Ai nostri occhi potrebbe sembrare una foto di gruppo su scala cosmica, quasi il ritratto di una famiglia di galassie. La realtà non è troppo diversa, perché quello che stiamo osservando sono in realtà due grandi famiglie di galassie che stanno per incontrarsi. A scoprirle sono stati due gruppi internazionali grazie alle antenne dell’Atacama Large Millimeter/Submillimeter Array (ALMA) e gli stumenti dell’Atacama Pathfinder Experiment (APEX). I dati mostrano che si tratta del più grande scontro fra ammassi di galassie mai osservato, e misurandone le caratteristiche gli astronomi hanno scoperto che la luce delle galassie è partita quando l'Universo aveva solo 1 miliardo e mezzo di anni, circa un decimo della sua età attuale. Un risultato, discusso in due lavori pubblicati su Nature e The Astrophysical Journal, che che apre nuovi scenari per capire come sono nati i primi ammassi di galassie nel cosmo.
Il risultato è il frutto del lavoro combinato di due team, coordinati rispettivamente da Tim Miller della Dalhousie University in Canada e dell’Università americana di Yale, e da Ivan Oteo dell’Università di Edimburgo. Studiando il protoammasso SPT2349-56, inizialmente identificato come un unico oggetto nelle osservazioni del South Pole Telescope e del telescopio spaziale Herschel, i ricercatori ne hanno rivelato la struttura grazie alla risoluzione di ALMA, mostrando in realtà che si tratta di due gruppi formati da 10 e 14 galassie con un’intensa attività di formazione stellare. La vera sorpresa è arrivata dalla misura della distanza di questi oggetti, che è risultata molto più grande di quanto atteso. Sembra infatti che la luce di queste galassie sia partita quando l’Universo aveva appena 1 miliardo e mezzo di anni, cioè un decimo della sua età. Un fatto sorprendente, perché non ci si aspettava dai modelli che la formazione di ammassi di galassie così grandi richiedesse un tempo molto maggiore. 'Come questo gruppo di galassie sia divento così grande così in fretta rimane ancora oscuro. Non è stata ammonticchiata lentamente nel corso di miliardi di anni, come gli astronomi si sarebbero aspettati” sottolinea Miller, “La scoperta offre una grande opportunità di studiare come le galassie massicce si siano incontrare per formare un ammasso di galassie così grande.'
Articoli originali
Nell’immagine: Immagine artistica di una super-fusione fra ammassi di galassie (
ESO/M. Kornmesser -
24/04/2018 - Su Urano c’è puzza di uova marce?
Su Urano c’è puzza di uova marce?
Se potessimo annusare le nubi di Urano forse potremmo sentire un odore sgradevole, tipico delle uova marce. Negli strati più esterni dell’atmosfera del pianeta è stata infatti rilevata la presenza di acido solfidrico, un gas incolore ma contraddistinto dal suo cattivo odore. Un fatto che per molti potrebbe essere una simpatica curiosità, ma che per gli astronomi è un importante tassello per capire la formazione di uno dei pianeti giganti del nostro Sistema Solare. Grazie a nuove osservazioni condotte con il telescopio Gemini Nord un team internazionale è infatti riuscito a rilevare la presenza di acido solfidrico nelle nubi più esterne di Urano, risolvendo un enigma che dura da anni. La scoperta, pubblicata su Nature Astronomy, aiuta infatti a fare luce sul passato di Urano e degli altri pianeti giganti del Sistema Solare.
Per studiare la composizione chimica di Urano gli astronomi, guidati da Patrick Irwin dell’Università di Oxford, hanno utilizzato lo strumento Near-Infrared Integral Field Spectrometer (NIFS) installato al riflettore da 8 metri Gemini Nord sulla sommità del vulcano Mauna Kea, alle isole Hawaii. Grazie a NIFS, gli scienziati hanno rilevato la presenza di acido solfidrico, la cui presenza nelle nubi di Urano è stata a lungo dibattuta. La scoperta mette in evidenza una differenza notevole rispetto a Giove e Saturno, la cui atmosfera è dominata da ammoniaca. Per spiegare questa diversa composizione chimica gli autori suggeriscono il diverso percorso evolutivo di Giove e Saturno rispetto a quello di Urano e Nettuno. La presenza di acido solfidrico, mai rivelata nemmeno durante i passaggi ravvicinati della sonda Voyager 2, ci può anche aiutare a capire se Urano si sia formato su un’orbita diversa da quella attuale, e sia poi arrivato dove si trova ora in seguito a una lenta migrazione orbitale. Studiando un’atmosfera che sarebbe sgradevole e velenosa per noi, potremmo ricavare moltissime informazioni sul passato del Sistema Solare.
Nell’immagine: Le nubi di Urano riprese nel 1986 dalla sonda Voyager 2 (NASA/JPL)
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20/04/2018 - Lanciata con successo TESS, la nuova missione NASA che andrà a caccia di pianeti extrasolari
Lanciata con successo TESS, la nuova missione NASA che andrà a caccia di pianeti extrasolari
Abbiamo una nuova sentinella spaziale che andrà alla ricerca di pianeti intorno ad altre stelle. La missione Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS) della NASA è stata infatti lanciata con successo nella notte fra il 18 e il 19 aprile (00:51 ora italiana). Il lancio è stato effettuato con un vettore Falcon 9 realizzato dalla SpaceX di Elon Musk, che dopo il lancio da Cape Canaveral è rientrato come da programma su una “nave drone” di appoggio nell’Atlantico. TESS è considerato il successore del telescopio Kepler e ci permetterà di compiere nuovi importanti passi in avanti nello studio degli esopianeti.
La missione di TESS durerà due anni, durante i quali il telescopio osserverà un campione di 350 mila stelle fra le più brillanti del cielo. In modo analogo a Kepler, per scoprire nuovi pianeti TESS sfrutterà il metodo dei transiti, osservando cioè le deboli fluttuazioni di luce causate dal passaggio degli esopianeti di fronte alla loro stella principale. A differenza di Kepler, TESS non osserverà un ristretta regione di cielo ma monitorerà tutta la volta celeste, osservando un campione di stelle molto luminose. Secondo le stime, nel corso della sua missione principale TESS potrebbe scoprire circa 20 mila nuovi esopianeti, 500 dei quali di dimensioni paragonabili a quelle della Terra, offrendo un campione ancora più ampio per studiare la formazione dei pianeti nella Galassia e andare a caccia di gemelli del nostro pianeta.
Nell’immagine: Il lancio di TESS (NASA)
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17/04/2018 - Dalla fantascienza alla mitologia, anche Caronte ha la sua toponomastica
Dalla fantascienza alla mitologia, anche Caronte ha la sua toponomastica
Ci sono i monti Clarke, dedicati allo scrittore di fantascienza autore di 2001:Odissea nello spazio, e c’è il monte Kubrick, dedicato al regista che nel 1968 trasformò il romanzo di Clarke in una pietra miliare del cinema di fantascienza. Sono solo due dei nomi scelti dall’Unione Astronomica Internazionale (IAU) per le formazioni geologiche di Caronte, la più grande luna di Plutone. Anche Caronte ha quindi una sua toponomastica ufficiale, decisa dall’IAU in seguito al successo della missione New Horizon, che ha visitato il satellite di Plutone nel corso della sua missione. Una toponomastica che trae ispirazione dal mondo della fantascienza, della mitologia e dell’esplorazione dello spazio.
Caronte è uno degli oggetti più grandi nella fascia di Kuiper ed è molto ricco di formazioni geologiche, analogamente alla nostra Luna o ad altri satelliti nel Sistema Solare. Monti, crateri e valli che ora hanno ricevuto un nome ufficiale grazie all’IAU, l’ente che ha l’autorità a livello internazionale sulla toponomastica astronomica. Un ruolo chiave in questa fase l’ha avuto il team della missione New Horizon, che ha proposto i nomi in seguito alla campagna Our Pluto (il nostro Plutone) che si è svolta online nel 2015. I nomi celebrano l’epica esplorazione di Plutone condotta da New Horizon, e pertanto sono stati scelti in modo da celebrare lo spirito di esplorazione umana. Quelli di Caronte sono nomi ispirati alla letteratura, dalle antiche leggende ai cult della fantascienza moderna, in uno spirito decisamente internazionale.
Articolo originale:
https://www.iau.org/news/pressreleases/detail/iau1803/
Nell’immagine: La superficie di Caronte con la nomenclatura approvata di recente dall’IAU (NASA/JOHNS HOPKINS UNIVERSITY APPLIED PHYSICS LABORATORY/SOUTHWEST RESEARCH INSTITUTE)
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13/04/2018 - Sholz, la stella che ci ha “sfiorato” 70 mila anni fa
Sholz, la stella che ci ha “sfiorato” 70 mila anni fa
In un passato non troppo lontano abbiamo ricevuto una visita interstellare. Lo conferma un nuovo studio apparso su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, secondo il quale 70 mila anni fa il nostro Sistema Solare fu visitato da una stella di passaggio, che arrivò a circa 0,5 anni luce dal Sole. In termini astronomici si tratta di un vero e proprio “incontro ravvicinato”, che gli astronomi hanno ricostruito a partire dagli effetti che questa stella ha avuto sulla Nube di Oort, il gigantesco “serbatoio di comete” ai confini del Sistema Solare. Il risultato non solo getta luce su un importante episodio del passato del Sistema Solare, ma ci aiuta a capire meglio le interazioni fra il Sole e le stelle vicine.
La stella in questione è chiamata la stella di Sholz, oggi si trova a circa 20 anni luce da noi. Si tratta in realtà di un sistema doppio chiamato WISE J072003.20-084651.2, formato da una nana rossa e da una nana bruna. Secondo il nuovo studio, coordinato da Carlos de la Fuente Marcos dell’Università Computense di Madrid, circa 70 mila anni fa potrebbe aver sfiorato il nostro Sole, in termini astronomici s’intende. La scoperta è avvenuta nel 2015, e il nuovo studio conferma questo episodio a partire dalle traiettorie di 340 oggetti nella nube di Oort. Studiando le orbite di questi oggetti e confrontandole con i risultati di apposite simulazioni al computer, ci si aspetterebbe una distribuzione uniforme, mentre così non è “La pronunciata maggior densità appare proiettata nella direzione della costellazione dei Gemelli” suggerisce de la Fuente Marcos, “che corrisponde con l’incontro ravvicinato della stella di Scholz”.
Nell’immagine: Raffigurazione artistica della stella di Sholz (Michael Osadciw/University of Rochester)
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09/04/2018 - Chi sta vincendo il “braccio di ferro” fra le Nubi di Magellano?
Chi sta vincendo il “braccio di ferro” fra le Nubi di Magellano?
C’è grande movimento oltre i confini della nostra Galassia. Un team internazionale di astronomi ha infatti mostrato che la Grande e la Piccola Nube di Magellano sono impegnate in un colossale “braccio di ferro” astronomico, in cui si strappano materia a vicenda. Frutto dell’interazione gravitazionale fra le due galassie, questa gara fra le due galassie satelliti della Via Lattea ha anche un impatto sulla struttura della nostra Galassia. Come spiegato su The Astrophysical Journal, il materiale delle due Nubi di Magellano viene infatti convogliato in parte nella Via Lattea e va ad alimentare i processi di formazione stellare, e pertanto studiare questa interazione più in dettaglio aiuta a capire meglio l’evoluzione della nostra Galassia.
Il lavoro parte dallo studio del cosiddetto Braccio Avanzato della Corrente Magellanica, un insieme di nubi che formano un ponte fra la Via Lattea e le Nubi di Magellano. E’ però importante capire da quale delle due Nubi provenga soprattutto il gas, cioè quale delle due galassie sta strappando più materiale all’altra. Per scoprirlo, il gruppo di ricerca, coordinato da Andrew Fox dello Space Telescope Science Institute di Baltimora, ha utilizzato una serie di osservazioni in luce ultravioletta condotte dal telescopio spaziale “Hubble”. In particolare, Fox e colleghi hanno osservato sette quasar molto distanti, la cui luce attraversa il Braccio Avanzato. Studiando come questa luce viene assorbita, è quindi possibile fare una accurata analisi chimica del materiale del Braccio, e in questo modo i ricercatori hanno scoperto che il gas appartiene soprattutto alla Piccola Nube di Magellano. La sua sorella più grande sta quindi strappando una maggiore quantità di gas dalla galassia più piccola, vincendo così, almeno per ora, questa curiosa sfida nello spazio.
Nell’immagine: Il Braccio Avanzato della Corrente Magellanica (Crediti: D. Nidever et al., NRAO/AUI/NSF and A. Mellinger, Leiden-Argentine-Bonn (LAB) Survey, Parkes Observatory, Westerbork Observatory, Arecibo Observatory, and A. Feild.)
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04/04/2018 - Sempre più lontano, grazie alle lenti gravitazionali
Sempre più lontano, grazie alle lenti gravitazionali
Non avevamo mai visto una stella così lontana. Un oggetto impossibile da vedere con gli attuali telescopi, se non fosse che questa volta la fortuna ci ha messo lo zampino. Grazie al fenomeno delle lenti gravitazionali, l’immagine della stella LS1 è stata ingrandita più di duemila volte, rendendola visibile con il telescopio spaziale “Hubble”. Le immagini di questa nuova stella da record sono state pubblicate e discusse in un articolo apparso su Nature Astronomy, e il loro studio ci permetterà di capire più fondo l’evoluzione delle stelle nell’Universo primordiale, la struttura degli ammassi di galassie e la natura della materia oscura.
Infatti il team internazionale di astronomi, coordinato da Patrick Kelly dell’Università del Minnesota, Jose Diego dell’Istituto di Fisica di Cantabria in Spagna e Steven Rodney dell’Università della Carolina del Sud, stava utilizzando il telescopio spaziale “Hubble” per osservare la supernova “Refsdal”, così soprannominata in onore dell’astronomo norvegese Sjur Refsdal, che nel 1964 suggerì la possibilità di utilizzare la combinazione di supernovae e lenti gravitazionali per studiare l’espansione dell’Universo.
Durante le osservazioni dell’ammasso, i ricercatori hanno notato la presenza della nuova stella, denominata LS1, nell’aprile 2016. Dopo aver scoperto LS1, gli astronomi ne hanno anche misurato lo spettro, che suggerisce che la stella sia una supergigante blu di classe spettrale B. Si tratterebbe quindi di una stella blu e molto luminosa, con una temperatura che va dagli 11 ai 14 mila gradi, più del doppio della temperatura del Sole. “La luce di LS1 non è stata ingrandita solamente dalla grandissima massa totale dell’ammasso, ma anche da un oggetto compatto di circa tre masse solari all’interno dell’ammasso,secondo un effetto chiamato microlensing gravitazionale”, ha aggiunto Diego. La lente potrebbe esser stata prodotta da una stella normale, oppure un oggetto compatto come una stella di neutroni o un buco nero di massa stellare, e pertanto studiare questi fenomeni di microlensing, seppur molto rari, ci permette di fare un censimento degli oggetti che altrimenti risulterebbero invisibili, come ad esempio i buchi neri. Conoscere la composizione degli ammassi di galassie, soprattutto degli oggetti più difficili da osservare con i telescopi, può aiutarci anche a capire meglio la percentuale di materia non visibile, raccogliendo così importanti indizi sulla materia oscura.
Nell’immagine: L’ammasso MACS J1149.5+2223 con l’immagine della stella LS-1
(NASA & ESA and P. Kelly (University of California, Berkeley)
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30/03/2018 - Scoperta una “galassia fantasma” senza materia oscura
Scoperta una “galassia fantasma” senza materia oscura
Non tutte le galassie sono maestose come la Via Lattea o la Galassia di Andromeda. Alcune contengono pochissime stelle e hanno un aspetto così evanescente da essere a malapena visibili. E fra queste “galassie fantasma” ce n’è una ancora più strana, che sembra quasi completamente priva di materia oscura. A scoprirlo è stato un team coordinato da Peter van Dokkum dell’Università di Yale, che si è concentrato sulla galassia NGC 1052-DF2 a 65 milioni di anni luce da noi. Secondo i dati di van Dokkum, la galassia contiene infatti 400 volte meno materia oscura di quanto atteso. La scoperta, pubblicata su Nature, potrebbe aiutarci a scoprire nuovi fenomeni che portano alla creazione di una galassia.
La scoperta è stata condotta con il Dragonfly Telephoto Array, un sistema di obbiettivi a grande campo appositamente sviluppato per scoprire le galassie più deboli ed evanescenti. La galassia è stata poi analizzata più in dettaglio con i telescopi dell’Osservatorio Keck alle Hawaii, che hanno permesso di misurare il moto di 10 ammassi globulari nella galassia. La velocità di questi ammassi è legata al campo gravitazionale della galassia, che dipende dalla quantità di materia (visibile e oscura) presente nella galassia. Le velocità sono circa un terzo di quanto atteso, e secondo gli astronomi questo dipende dal fatto che nella galassia c’è molta meno materia oscura di quanto atteso. Come si possa formare una galassia come DF2 è ancora tutto da scoprire, anche se la causa potrebbe essere nella presenza di forti venti stellari che hanno “spazzato via” la materia oscura, oppure nella frammentazione di una galassia più grande, da cui sarebbe poi nata questa curiosa isola cosmica.
Nell’immagine: La galassia NGC 1052-DF2 ripresa dal telescopio spaziale Hubble (NASA, ESA, and P. van Dokkum (Yale University))
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27/03/2018 - Tutto il ferro di Kepler 229b
Tutto il ferro di Kepler 229b
A prima vista sembra un semplice gemello della Terra, ma al suo interno nasconde un pesante segreto. Pesante in senso letterale perché il pianeta K2-229b, poco più grande della nostra Terra, sembra racchiudere un gigantesco nucleo ferroso, che rende questo pianeta molto simile a Mercurio piuttosto che al nostro. A scoprirlo è stato un team internazionale, che ha sfruttato i dati della fase estesa di osservazione del telescopio spaziale “Kepler” e dello strumento Harps installato al telescopio riflettore da 3,6 metri installato all’Osservatorio Australe Europeo. La scoperta, pubblicata su Nature Astronomy, ci aiuterà a capire la formazione dei pianeti, in particolare di quelli rocciosi come la Terra e Mercurio.
Il lavoro, a cui hanno partecipato Francesca Faedi e Aldo Bonomo dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, è partito dai dati di “Kepler”, che ha osservato la stella K2-229 fra luglio e settembre 2016, scoprendo tre pianeti fra cui K2-229b, che è il più vicino dei tre e orbita intorno alla stella in appena un giorno. Grazie all’analisi delle velocità radiali del pianeta è stato possibile determinarne la massa, che sembra essere 2,6 volte quella del nostro pianeta. Secondo i ricercatori ciò è dovuto al fatto che in K2-229b circa il 70% della massa è costituita da ferro, analogamente a quanto accade per Mercurio. Non è chiaro come si possa esser formato un pianeta così pesante, e secondo gli scienziati la spiegazione potrebbe essere in un violento scontro planetario che avrebbe strappato gli strati più esterni del pianeta, un episodio simile a quanto ci aspettiamo sia accaduto nel lontano passato di Mercurio.
Nell’immagine: Raffigurazione artistica di K2-229b (NASA/JPL)