Astronews a cura di Massimiliano Razzano
Fino al 13/11/2017 a cura di Piero Bianucci, fino al 20/01/2018 a cura di Luigi Bignami
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24/06/2019 - QUANTO SI ESTENDE LA NOSTRA GALASSIA?
QUANTO SI ESTENDE LA NOSTRA GALASSIA?
Sappiamo che la Via Lattea annovera alcune strutture base, vale a dire il bulge (o rigonfiamento centrale) composto in prevalenza da stelle vecchie di Popolazione II e il disco, esteso circa 100 mila anni-luce, popolato dalla generazione di stelle più recente (Popolazione I) ed enormi nubi molecolari in cui stanno nascendo nuove stelle.
Queste due strutture sono immerse in una molto più ampia, approssimativamente sferica, l’alone, popolata da ammassi globulari e vecchie stelle singole, la cui densità cresce in funzione della vicinanza al nucleo, intorno al quale orbitano su tempi piuttosto lunghi (vedi la Figura, non in scala). C’è inoltre una parte di alone molto più diffusa ed estesa, l’alone esteso, in cui si rinvengono stelle isolate anche a grandi distanze. Ma sino a quale distanza?
Un gruppo di ricercatori ha provato a dare una misura oggettiva a questo diffuso limite di demarcazione tra lo spazio locale e quello intergalattico. Usando il Subaru Telescope da 8,2 m, equipaggiato con l’Hyper Suprime-Cam (HSC), il team di ricercatori, guidati dallo studente Tetsuya Fukushima e dal suo supervisore Masashi Chiba della Tohoku University, ha trovato che la Galassia presenta un raggio esteso sino a circa 520 mila anni luce, cioè 20 volte la distanza tra il centro galattico e il Sistema Solare.
Per ottenere questo risultato, il team ha selezionato le cosiddette stelle a “ramo orizzontale blu” (BHB) e le variabili RR Lyrae, da cui ha derivato la densità spaziale di tali stelle d’alone, trovando un inatteso forte calo di densità a circa 520 mila anni luce.
Le stelle che abitano tale regione dello spazio (circa 2 miliardi) sono state strappate ad ammassi globulari (meno di 200 quelli conosciuti) e galassie satelliti (circa 50) nel corso di passaggi ravvicinati nella regione del nucleo. Conoscere l’estensione spaziale dell’alone estesoè importante per comprendere la formazione e l’evoluzione della Via Lattea, così come le interazioni con l’alone di materia oscura dentro al quale si trova e le prossime interazioni con la Galassia di Andromeda, il cui alone esteso si espande per 538 mila anni luce, quindi appena più vasto.
Tali indagini sono tutt’altro che semplici: non basta prendere immagini profonde e filtrate in cui ricercare stelle BHB e variabili RR Lyrae, ma sono necessari anche i maggiori strumenti, dato che le stelle più deboli presenti in questa regione sfuggono anche a telescopi della classe dei 4 m.
Giuseppe Donatiello
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23/06/2019 - LA GALASSIA DI ANDROMEDA NELLE MICROONDE
LA GALASSIA DI ANDROMEDA NELLE MICROONDE
Grazie alla sua vicinanza e somiglianza alla Via Lattea, la Galassia di Andromeda (M31) è un laboratorio unico nel quale studiare una grande varietà di sorgenti, per comprendere, da una prospettiva esterna, l'astrofisica della nostra Galassia.
Paradossalmente, per certe ricerche, la nostra posizione all’interno della Galassia non è vantaggiosa. Pertanto, M31 è ampiamente studiata a tutte le lunghezze d'onda, dai raggi gamma alle lunghezze d'onda radio. Finora, non era stata però studiata in modo approfondito nelle microonde. Ci ha pensato una collaborazione internazionale, utilizzando dati raccolti con il Sardinia Radio Telescope (SRT), il gioiello italiano inaugurato nel 2013 e gestito dall’INAF, che osserva lo spettro radio da 0,3 a 100 GHz.
Elia Battistelli (Dipartimento di Fisica della Sapienza), alla guida di un gruppo di ricercatori di istituti italiani, spagnoli, canadesi e statunitensi, ha sfruttato la risoluzione del paraboloide da 64 m alla frequenza di 6,7 GHz (4,5 cm di lunghezza d’onda), eseguendo 44 scansioni in 64 ore di osservazione, per realizzare una mappa di 7,4° quadrati, centrati sul nucleo di M31.
Lo studio ha evidenziato, insieme alle emissioni attribuibili alle interazioni dal materiale interstellare con il campo magnetico della galassia, anche la presenza di una componente anomala, posta circa ad anello ai bordi del disco, che si presenta come un netto eccesso a 6,7 GHz.
Non è ancora ben chiaro quale meccanismo sia all’origine di questo anello e il team propende di invocare il fenomeno dello spinning dust, un’emissione prodotta dalla rapida rotazione di minuscoli grani di polvere interstellare. Tale emissione era stata già intravista nei dati del satellite Planck a 857 GHz, tracciando il contenuto di polveri presente sul disco della galassia, ma grazie alla maggiore capacità di raccolta segnale di SRT, è stata confermata e rivelata in dettaglio.
Questi risultati permettono, per la prima volta, di avere una visione completa di questa spettacolare galassia e di acquisire maggiori informazioni sul suo campo magnetico e processi di formazione stellare in corso. In Figura, l’emissione a 6,7 GHz resa in colore rosso e sovrapposta a un’immagine ottica di M31.
Giuseppe Donatiello
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21/06/2019 - IL 28° STAR PARTY A SAINT-BARTHÉLEMY
IL 28° STAR PARTY A SAINT-BARTHÉLEMY
La Fondazione Clément Fillietroz-ONLUS, che gestisce l’Osservatorio Astronomico della Regione Autonoma Valle d’Aosta (OAVdA) e il Planetario di Lignan, organizza da venerdì 27 a domenica 29 settembre 2019, la festa dell’astronomia più antica d’Italia.
Ricercatori, astrofili, astrofotografi, costruttori e rivenditori di strumenti, comunicatori, astroartisti, appassionati e curiosi si incontrano nel comprensorio montano del Comune di Nus (Valle d’Aosta) per scambiarsi idee, condividere esperienze, compiere osservazioni notturne del cielo con lo spegnimento dell’illuminazione pubblica.
La manifestazione si svolge nell’ambito del Progetto n. 1720 “EXO/ECO – Esopianeti – Ecosostenibilità – Il cielo e le stelle delle Alpi, patrimonio immateriale dell’Europa”, finanziato dal Programma di Cooperazione transfrontaliera Italia/Francia Interreg ALCOTRA 2014/2020.
Per aggiornamenti, vedi il sito www.oavda.it, Facebook osservatorioastronomicovalledaosta e starpartysaintbarthelemy.
In Figura, uno spettacolare bolide sfreccia sopra la cupola dell’OAVdA, ripreso da Lorenzo Comolli.
La Redazione
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20/06/2019 - DUE PIANETI AI MARGINI DELLA LACUNA
DUE PIANETI AI MARGINI DELLA LACUNA
Il censimento degli esopianeti ne conta ufficialmente più di 4000, un numero ormai statisticamente rilevante per eseguire studi sulla struttura e formazione dei sistemi planetari.
Una tra le prime cose a essere notata fu la struttura anomala del nostro Sistema Solare - pianeti rocciosi più vicini e giganti gassosi più distanti dal Sole – che sembra alquanto rara negli altri sistemi. Tuttavia, i dati statistici hanno rivelato un aspetto curioso che potrebbe spiegare questa anomalia: c’è una lacuna nella distribuzione dei raggi planetari, scoperta analizzando dati raccolti dal satellite Kepler e dal telescopio Keck. I pianeti rocciosi super-Terra sono relativamente comuni sino a circa 1,5 raggi terrestri, così come i mini-Nettuno gassosi intorno a 2-4 raggi. In mezzo si conoscono pochissimi esopianeti e tale deficit non sembra casuale.
Questa lacuna (radius gap) potrebbe essere una conseguenza delle intense radiazioni emesse dalle giovani stelle che vanno a erodere le atmosfere dei pianeti più vicini, sino a spogliarli del guscio gassoso, che è mantenuto invece da quelli più distanti: i pianeti rocciosi sarebbero quindi i nuclei di pianeti inizialmente gassosi del tipo mini-Nettuno.
Pianeti a distanze maggiori dalla stella, o formatisi con un guscio più spesso, possono eludere il fenomeno erosivo, conservando gran parte del gas iniziale. Sebbene questo quadro sembri plausibile e ben si adatti anche al Sistema Solare, resta arduo da verificare per via delle molte variabili in gioco.
Le super-Terre e i mini-Nettuno sinora identificati erano tutti intorno a stelle poste a varie distanze e appartenenti a differenti classi spettrali con specifiche intensità di radiazione, ma il radius gap non era mai stato osservato in un singolo sistema.
Con oltre 750 candidati pianeti rilevati, il satellite TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite) sta incrementando i numeri disponibili per le statistiche e adesso due pianeti, recentemente scoperti attorno alla stella HD 15337, sembrano soddisfare tale condizione e perciò aiutare a comprendere meglio i meccanismi che portano alla produzione della lacuna.
Un gruppo di scienziati, guidati da Davide Gandolfi (Università di Torino), ha analizzato nel dettaglio le curve di luce ottenute da TESS, così come i dati spettroscopici riguardanti le velocità radiali ad alta risoluzione con cui sono stati identificati due pianeti (HD15337 b e c), con masse rispettivamente uguali a 7,5 e 8,1 masse terrestri (vedi un’illustrazione artistica del sistema in Figura).
Questi due pianeti sono molto diversi tra loro: HD 15337b ha un’orbita vicinissima alla sua stella, con periodo di appena 4,8 giorni, una super-Terra di 1,6 raggi terrestri e densità di 9,3 g/cm³; HD 15337c è più lontano, con periodo di 17,2 giorni, un mini-Nettuno di 2,4 raggi terrestri e densità di 3,2 g/cm³.
Utilizzando un algoritmo per descrivere l’evoluzione atmosferica di un giovane pianeta in rapporto all’emissione di alta energia (estremo ultravioletto e raggi X) della stella ospite, il gruppo ha scoperto che HD 15337, all'età di 150 milioni anni, possedeva tra 3,7 e 127 volte la luminosità del Sole attuale, condizionando il destino dei due giovani esopianeti.
Nonostante le masse simili, i due hanno subito evoluzioni differenti e giacciono esattamente ai bordi opposti della lacuna, costituendo un eccellente banco di prova per le teorie relative sulla formazione ed evoluzione dei pianeti.
Giuseppe Donatiello
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18/06/2019 - LE SUPERNOVAE CHE CI HANNO ALZATO IN PIEDI
LE SUPERNOVAE CHE CI HANNO ALZATO IN PIEDI
Non tutti i mali vengono per nuocere. Si potrebbe riassumere così l’ultima idea di Adrian Melott, professore emerito all’Università del Kansas, e del suo collega Brian Thomas dell’Università di Washburn, secondo i quali l’esplosione di alcune supernovae relativamente vicine alla Terra – l’ultima delle quali avvenuta all’inizio del Paleolitico, circa 2,6 milioni di anni fa – avrebbe indirettamente favorito l’evoluzione della specie umana, in particolare facendo definitivamente acquisire la posizione eretta agli ominidi.
L’idea degli autori parte dagli indizi riguardanti esplosioni di supernovae (vedi un’illustrazione artistica in Figura) che hanno inondato la Terra con piogge di raggi cosmici a partire da 8 milioni di anni fa, e con un picco attorno ai 2,6 milioni di anni fa. I raggi cosmici produssero una forte ionizzazione degli strati più bassi dell’atmosfera, da cui derivò un enorme aumento di fulmini che causò incendi nelle foreste a livello globale.
La savana prese il posto delle foreste bruciate, e l’adattamento a questo nuovo ambiente potrebbe essere stata una delle condizioni che portarono i progenitori dell’Homo sapiens – in particolare nell’Africa nord-orientale – a sviluppare il bipedismo, più utile della capacità di arrampicarsi sugli alberi in tale contesto.
Basandosi sulle quantità di ferro-60 (isotopo del ferro raro sulla Terra ma prodotto dalle supernovae) trovato sui fondali marini, gli astronomi ipotizzano che siano avvenute esplosioni di supernovae a una distanza compresa tra 160 e 320 a.l. in un’epoca corrispondente alla transizione tra il Pliocene e l’Era glaciale.
Solitamente, i raggi cosmici non provocano la ionizzazione della bassa atmosfera, in quanto non riescono a penetrare così a fondo. Tuttavia, quelli provenienti dalle supernovae, più energetici, arrivano fin sulla superficie, lasciando dietro di sé una scia di elettroni strappati ad atomi o molecole presenti nell’aria, una sorta di “pista elettrica” attraverso cui i fulmini possono scaricarsi molto più facilmente.
La probabilità che questa frequenza insolitamente alta di fulmini abbia scatenato una recrudescenza in incendi a livello mondiale è supportata dalla scoperta di depositi di carbone della stessa epoca del bombardamento di raggi cosmici e diffusi in tutto il mondo.
Nessun timore che un simile stravolgimento climatico si ripeta nella nostra epoca: la stella più vicina in grado di esplodere in una supernova nel prossimo milione di anni è Betelgeuse, lontana più di 600 anni luce dalla Terra (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
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18/06/2019 - GALAXY ZOO ACCORDA IL DIAPASON DI HUBBLE
GALAXY ZOO ACCORDA IL DIAPASON DI HUBBLE
Gli appassionati di cielo profondo si sono impegnati in migliaia per dare una “spolverata” alla storica classificazione di galassie utilizzata ormai da quasi un secolo, il famoso diagramma a diapason di Hubble (The Hubble Tuning Fork).
Il nuovo studio è stato condotto nell’ambito del progetto Galaxy Zoo di citizen science (la “scienza dei cittadini”, o “scienza distribuita”), che aveva lo scopo di classificare le immagini di oltre seimila galassie riprese da telescopi spaziali.
Il famoso diagramma (Figura) venne ideato da Edwin Hubble nel 1927: si tratta di un modo semplice ed efficace per classificare le galassie in base al tipo e alla forma, dalle ellittiche (ellipticals) alle spirali (spirals), passando per quelle lenticolari (lenticulars) e irregolari (irregulars).
In base alla sua statistica, Hubble affermava che le galassie con rigonfiamenti centrali più grandi tendevano ad avere bracci a spirale più stretti verso il centro. Il nuovo studio contraddice in parte le affermazioni dell’astrofisico: secondo i ricercatori e i volontari che li hanno aiutati via Internet, non c’è una forte correlazione tra il centro galattico e il tipo di bracci a spirale delle galassie.
Gli esperti hanno trovato spiegazioni alternative al classico modello dell’onda di densità, cioè l’idea che i bracci non siano strutture fisse, ma causate da increspature nella densità del materiale nel disco della galassia. Dallo studio si ricava che almeno alcuni bracci a spirale potrebbero essere strutture reali, non solo increspature, e dunque ammassi di stelle legate dalla gravità e che ruotano fisicamente insieme (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
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18/06/2019 - RISOLTO IL MISTERO DI AHUNA MONS
RISOLTO IL MISTERO DI AHUNA MONS
RISOLTO IL MISTERO DI AHUNA MONS
Quando gli scienziati videro per la prima volta questa struttura sulle immagini scattate dalla sonda Dawn, non credettero al loro occhi: dalla superficie disseminata di crateri del pianeta nano Cerere, si ergeva una montagna uniforme, liscia e scoscesa: Ahuna Mons.
Una base da 20 km di diametro per quasi 5000 m di altezza per la montagna più alta dell’unico pianeta nano della Fascia Principale degli asteroidi. Una delle strutture più imponenti del Sistema Solare, paragonabile per dimensioni al Monte Bianco.
Una struttura, quella di Ahuna Mons, la cui formazione è rimasta un mistero fino a poco tempo fa. Un’indagine condotta da un team internazionale facente capo al centro aerospaziale tedesco (DLR) sembra aver risolto il mistero, grazie a misure gravimetriche ottenute dalla sonda Dawn, che hanno valutato le anomalie gravitazionali delle regione.
Il risultato? Una bolla composta da una miscela di acqua salata, fango e roccia – creatasi all’interno del pianeta nano, a livello del mantello – avrebbe spinto verso l’alto la crosta ricca di ghiaccio, causandone a un certo punto la rottura e permettendo così la fuoriuscita sulla fredda superficie di Cerere, con la conseguente solidificazione e formazione dell’enorme vulcano di fango.
L’interno di Cerere non è omogeneo. Dopo la formazione del corpo celeste, la materia che lo costituiva si sarebbe separata, sedimentandosi in maniera diversa: quella con una percentuale maggiore di elementi pesanti, come il magnesio e il ferro, sarebbe precipitata al centro del corpo celeste; mentre quella più leggera, come le rocce con un elevato contenuto di silicati d’alluminio e acqua, sarebbe risalita verso la superficie.
In questo scenario, le bolle responsabili della formazione di Ahuna Mons si sarebbero create a causa del calore generato (ancora oggi) dal decadimento di elementi radioattivi. Bolle che sarebbero migrate verso l’alto per galleggiamento fino a spezzare la crosta dal basso. Così è nato questo immenso iceberg prodotto dall’eruzione della mistura poi congelata in superficie, a temperature di –100 °C, un’attività chiamata criovulcanesimo, un termine che si riferisce a quei fenomeni vulcanici che avvengono sui corpi ghiacciati del Sistema Solare (Fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
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12/06/2019 - UN OCEANO SU PLUTONE, SOTTO UNA “COPERTA” DI GAS
UN OCEANO SU PLUTONE, SOTTO UNA “COPERTA” DI GAS
A luglio 2015, la sonda spaziale New Horizonsdella NASA è passata molto vicina a Plutone, regalando scenari spettacolari del pianeta nano e delle sue lune. Le immagini hanno mostrato l’inattesa topografia di Plutone, con un bacino ellissoidale di colore bianco chiamato Sputnik Planitia (Figura) situato vicino all’equatore ed esteso oltre due volte l’Italia (circa 700 mila km quadrati).
Per via della posizione e della topografia, gli scienziati ritengono che al di sotto del ghiaccio che ricopre Sputnik Planitia vi sia un oceano. Questa ipotesi sembra in contraddizione con l’età di Plutone, poiché tale oceano dovrebbe essersi congelato molto tempo fa.
Ricercatori giapponesi e americani hanno cercato di capire che cosa potrebbe mantenere “caldo” questo oceano, evitando che congeli, pur lasciando ghiacciata la superficie interna del guscio che ricopre Plutone. Il team ha ipotizzato che sotto la superficie ghiacciata di Sputnik Planitia esista uno “strato isolante” di gas idrati. Questi gas si formano in ambienti caratterizzati da bassa temperatura e alta pressione, sono altamente viscosi e hanno una bassa conduttività termica.
I ricercatori hanno condotto simulazioni al computer di un periodo pari a 4,6 miliardi di anni, riproducendo l’evoluzione dell’interno di Plutone. Le simulazioni hanno dimostrato che, senza uno strato isolante di gas, l’oceano si sarebbe congelato già centinaia di milioni di anni fa; mentre in presenza dello strato di gas non congela. Inoltre, hanno verificato che occorre circa un milione di anni perché una crosta di ghiaccio uniformemente densa si formi sull’oceano, mentre con uno strato isolante di gas ci vuole più di un miliardo di anni. I risultati della simulazione supportano quindi la presenza di un oceano liquido molto vecchio al di sotto della Sputnik Planitia.
Il team ritiene che il gas più probabile presente all’interno dello strato isolante sia il metano, proveniente dal nucleo roccioso di Plutone. Un’ipotesi coerente con l’insolita composizione dell’atmosfera di Plutone, povera di metano e ricca di azoto. Simili strati isolanti di gas idrato potrebbero mantenere per lungo tempo oceani al di sotto della superficie di altre lune ghiacciate e di altri oggetti celesti distanti.
“Questo potrebbe significare che nell’Universo gli oceani siano molto più diffusi di quanto si creda, rendendo più plausibile l’esistenza della vita extraterrestre”, afferma Shunichi Kamata (Università di Hokkaido), leader del team che ha condotto questa ricerca (fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
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12/06/2019 - LA DINAMO SOLARE BALLA AL RITMO DEI PIANETI
LA DINAMO SOLARE BALLA AL RITMO DEI PIANETI
Un team di astrofisici tedeschi ha trovato indizi a sostegno dell’ipotesi che siano le forze gravitazionali dei pianeti, con i loro effetti mareali, il fattore decisivo del ciclo di attività solare (in Figura, un grafico del ciclo 24 appena concluso).
Per dimostrare questo rapporto, il gruppo guidato dal fisico Frank Stefani ha confrontato le osservazioni storiche degli ultimi mille anni relative all’attività solare – ovvero ai cicli undecennali che coinvolgono le macchie solari – con gli allineamenti planetari, dimostrando che i fenomeni sono correlati. Analogamente all’effetto mareale che la Luna esercita sulla Terra, i pianeti sarebbero in grado di spostare il plasma solare verso la superficie del Sole e quindi di influenzare i moti convettivi che generano il suo campo magnetico.
Le possibili combinazioni planetarie sono molte, ma è l’allineamento Venere-Terra-Giove a mostrare una sorprendente regolarità: raggiunge il massimo ogni 11,07 anni, esattamente la durata del ciclo solare. Questa coincidenza temporale era conosciuta almeno dal 1948, ma è stata trascurata per la convinzione che il Sole non potesse risentire dell’influenza di corpi così piccoli e lontani come i pianeti.
Per risolvere questa contraddizione, il team tedesco ha considerato l’instabilità di Tayler, un effetto che viene generato dalla corrente elettrica che passa in un liquido conduttore, amplificandone in modo notevole le variazioni di comportamento. A partire da una certa intensità di corrente, sotto la quale il fenomeno non ha rilevanza, basta una “spinta” minima per creare una reazione a catena.
Sembra che tale spinta, nel caso del Sole, arrivi dai tre pianeti allineati e che il plasma solare rappresenti il liquido conduttore. Per poterlo dimostrare, già dal nel 2016 gli scienziati tedeschi hanno simulato l’instabilità di Tayler in una colonna di metallo liquido. Nella dinamo solare entrano però in gioco altri fattori a complicare la questione. Il Sole ruota più rapidamente all’equatore rispetto ai poli, e questa rotazione differenziale genera i campi magnetici che, arrivati in superficie, sono visibili sotto forma di macchie solari che evidenziano un campo magnetico quasi parallelo all’equatore. A contrastare questo effetto ce n’è un altro, che distorce i campi magnetici appiattiti sull’equatore, inducendoli a risalire in senso verticale. Questo secondo effetto potrebbe essere causato, secondo Stefani, proprio dall’instabilità di Tayler.
Intanto, gli esperimenti di laboratorio proseguono, anche perché l’applicazione dell’instabilità di Tyler su scala più piccola – come la meteorologia terrestri – potrebbe spiegare altri misteri ancora più vicini a noi (fonte: Media-INAF).
Piero Stroppa
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10/06/2019 - CHE COSA SI NASCONDE SOTTO IL PIÙ GRANDE CRATERE LUNARE?
CHE COSA SI NASCONDE SOTTO IL PIÙ GRANDE CRATERE LUNARE?
Fin dalle prime missioni automatiche dirette verso la Luna, sono note le anomalie gravitazionali dette mascons (mass concentrations), riscontrate in corrispondenza con i bacini dei mari. Una di tali concentrazioni è stata ora scoperta sotto il bacino Aitken, il più grande di tutto il Sistema Solare, nonché uno dei crateri meglio conservati, nonostante sia datato a circa 4 miliardi di anni.
Secondo uno studio della Baylor University, diretto da Peter B. James, questa enorme massa è pari a cinque volte la Big Island delle Hawaii e sembra essere costituita principalmente di metallo, presumibilmente quanto rimane del nucleo dell'asteroide che scavò l'enorme cratere, largo circa 2000 km.
Nonostante le sue dimensioni, non può essere visto dalla Terra, perché si trova sul lato nascosto, nella zona sud della Luna. Simulazioni al computer di grandi impatti con asteroidi suggeriscono che, nelle giuste condizioni, il nucleo di ferro-nichel del proiettile può essere disperso nel mantello superiore (tra la crosta e il nucleo) durante un impatto. Tali particolari condizioni sembrano essersi prodotte proprio per questo bacino, poiché si presenta di forma ellittica, rivelando una collisione obligua rispetto alla superficie.
Per rilevare l'anomalia gravimetrica, i ricercatori hanno analizzato i dati provenienti dalla GRAIL (Gravity Recovery and Interior Laboratory), dopo averli incrociati con le immagini della Lunar Reconnaissance Orbiter, entrambe missioni della NASA.
In Figura, immagine a falsi colori che mostra il bacino di South Pole-Aitken (SPA) rappresentato nelle tonalità del blu. Il cerchio tratteggiato mostra la posizione dell'anomalia di massa rivelata sotto il bacino.
Giuseppe Donatiello